Innovazione

Tre domande per il cibo del futuro

17 Maggio 2017

A due anni da Expo, gli eventi sul cibo continuano a moltiplicarsi, ma la discussione resta spesso incagliata nelle gesta dei grandi cuochi o nel super food del momento. L’intervento di Obama a Milano la settimana scorsa ha avuto se non altro il merito di ricordare a tutti che parlare di cibo vuol dire parlare di politica, scienza, cultura, economia. E se lui alla fine di cibo ha parlato poco e vagamente, intorno a lui c’erano imprenditori, divulgatori e attivisti che hanno avuto la possibilità di riempire l’attenzione generale con dei contenuti. Sì, perché nei giorni scorsi a Milano, tra Food Week, Food City e in particolare a Seeds&Chips, il summit internazionale dell’innovazione alimentare, si è avuto la possibilità di fare una passeggiata nel futuro del cibo per come ce lo immaginiamo oggi, in Occidente.

Droni e sensori per l’agricoltura di precisione, software capaci di presagire le malattie delle piante a partire da una foto, proteine alternative ottenute da alghe e insetti, coltivazioni idroponiche o aeroponiche ad arredare i salotti, serre coltivate all’interno dei supermercati o dei ristoranti, materiali biodegradabili per sostituire le confezioni in plastica, sistemi di intelligenza artificiale per progettare gli abbinamenti gustativi.

In questo tripudio di futuro, il tema più corteggiato è stato quella della cara vecchia sostenibilità, per una convergenza non così scontata tra buon senso e possibilità di profitto. E anche se manca poco che la parola sostenibilità diventi un refrain povero di significato, la sfida ambientale resta in cima all’agenda internazionale. Così, come bilancio di questa prima settimana del cibo milanese, provo a tradurre in tre domande e qualche esempio virtuoso alcune delle sfide che assillano o dovrebbero assillare chiunque si occupi di innovazione alimentare, sostenibilità e divulgazione.

Quella dei 9 miliardi di persone da sfamare nel 2050 è una trappola?

La frase, senza punto di domanda, l’ha pronunciata da Edward Mukiibi, vice presidente di Slow Food International durante una delle conferenze più interessanti sentite a Seeds&Chips. Il suo concetto è che se restiamo bloccati in questa retorica perdiamo di vista il vero bisogno che non è produrre di più, ma distribuire meglio. Un dato che da solo può spiegare questa presa di posizione è l’arcinoto 30% di cibo prodotto globalmente che va sprecato. Lo spreco riguarda tutta la filiera, dalle aziende agricole alla tavola, ma quello che sappiamo è che nei paesi ricchi si butta via molto tra distribuzione e acquisto (i consumatori sprecano da soli più o meno l’equivalente dell’intera produzione dell’Africa Sub Sahariana, ogni anno), mentre nei paesi in via di sviluppo lo spreco si concentra nelle fasi di raccolta e conservazione (dati Fao per approfondire).

In Occidente qualcosa si muove a livello istituzionale (vedi le recenti leggi francese e italiana), ma ho come l’impressione che resti un tema del tutto marginale nei fatti, nella quotidianità delle persone, che per fare un esempio, non sono ancora disposte a comprare le verdure brutte. Non intendo marce o ammuffite, semplicemente storte, goffe, piccole, a seconda della naturale variabilità del raccolto. Quelle che la distribuzione non paga agli agricoltori come se non fossero commestibili. Nei paesi in via di sviluppo invece il problema riguarda la conservazione: anche laddove i raccolti sono sufficienti a sfamare intere comunità, non ci sono i mezzi per conservarli nel tempo e prolungarne il consumo. Su questo ha insistito Mukiibi per rafforzare il suo punto: “il problema in vaste aree del mondo non è quanto riusciamo a produrre ma quanto riusciamo a conservare, e investire sulla produttività può portare fuori strada o addirittura portarci a sprecare di più”.

Ma parlando di produttività, visto che Obama a Milano ha dichiarato gigione di voler continuare a mangiare carne, per sfamare quei famosi 9 miliardi di persone bisognerà trovare il modo di renderla più efficiente e in fretta perché al momento gli allevamenti occupano il 26% delle terre emerse (tolti i ghiacciai) più il 33% delle coltivazioni di cereali (dati Fao). Cereali che gli agricoltori statunitensi sono incentivati a produrre sotto forma di monoculture tramite i sussidi per i commodity crops, che poi finiscono nei mangimi degli allevamenti intensivi. Per cui oltre allo spreco di terra, acqua ed emissioni che viene alimentato dal diritto di concedersi quotidianamente una bella fetta di carne, lo Stato supporta cibi poco nutrienti, come il mais e la soia da monoculture, e cibi poco efficienti come la carne.

Tornando dunque alla domanda iniziale: tra sfamare e nutrire c’è differenza e forse per venirne a capo potremmo iniziare a pensare le politiche agricole (quella europea, per cominciare) in termini di nutrimento e in funzione di un modello alimentare che tuteli l’ambiente e riduca gli sprechi.

Il vertical farming è la nuova forma di chilometro zero?

Tema di punta dell’innovazione alimentare, per vertical farming si intende la coltivazione in serre controllate da tecnologie sofisticate. Nonostante il nome, la coltivazione avviene in orizzontale, ma su più piani, e in assenza di terra, sostituita da tecniche idroponiche o aeroponiche. Salvo qualche eccezione che sfrutta la luce solare, ogni piano della serra ha la sua fonte luminosa artificiale, spesso a led, e la sua dose di sensori capaci di controllare ogni fattore ambientale (umidità, temperatura ecc).

Tutto questo dispiegamento tecnologico mantiene però un punto critico: la natura energivora di questi impianti. E d’altro canto un punto forte, perché questa forma di coltivazione permette di delocalizzare la produzione di cibo il più vicino possibile al luogo dove verrà venduto o consumato, riducendo così l’impronta ecologica della fase distributiva. Serre costruite a fianco dei supermercati e in collaborazione con essi, come fa ad esempio Bright Farms, oppure progettate per stare dentro ai ristoranti o direttamente nelle nostre cucine.

Insomma un chilometro zero senza terra e senza sole, utile nei contesti urbani e in particolare nelle grandi città. Difficile vederne l’utilità in Italia dove per ora non manca né sole né terra fertile e dove possiamo avere una grande varietà di verdure tutto l’anno, e con poco impegno avere tutto ciò a chilometro zero. L’imprenditore danese che mi fissa con occhio pallato mentre gli snocciolo i miei dubbi vorrebbe anche lui mangiare verdure tutto l’anno, come dargli torto. E il vertical farming glielo può permettere, senza farsele inviare da lontano.

Ma è giusto indirizzare il grosso degli investimenti e dell’intelligenza imprenditoriale verso la possibilità di mangiare qualsiasi cosa in qualsiasi momento dell’anno a prescindere dal territorio in cui mi trovo? Forse il cambiamento climatico lo renderà inevitabile, ma ci sono delle vie alternative? Penso ad esempio al Nordic Food Lab e al suo lavoro di valorizzazione dei prodotti locali. Al Nordic Food Lab si studiano tecniche culinarie da tutto il mondo per applicarle alla materia prima reperibile in Danimarca e per ottenere il massimo di varietà e gusto a partire da quello che già c’è. In poche parole: globalizzazione della conoscenza per un cibo territoriale.

Vertical farming e ricerca del Nordic Food Lab non sono due traiettorie che si escludono a vicenda ma è utile tenerle a mente entrambe quando si immagina il cibo del futuro, perché rischiano di riempire la stessa dicitura “chilometro zero” con contenuti molto diversi.

Il contadino si salva con i big data?

Oltre il 70% del cibo prodotto globalmente viene da piccole fattorie familiari, la maggior parte delle quali vive nei paesi in via di sviluppo. Per far fronte alle sfide del cambiamento climatico e della popolazione in crescita è chiaro che l’innovazione deve passare da qui, cioè dal mettere questi agricoltori in grado di sopperire alla propria nutrizione e quella della loro comunità. Ed è un bene, perché lavorare all’innovazione insieme ai piccoli produttori permette di accedere alla loro conoscenza della comunità locale, del suo sistema sociale oltre a quello agricolo, e impostare progetti resilienti e dinamici. Un esempio in questo senso è il lavoro di A Growing Culture, che insiste proprio sull’intersezione tra innovazione agroecologica e autonomia dei piccoli produttori.

Eppure ancora poche delle start up in circolazione investono nell’agricoltura di piccola scala, tutte puntano su costose tecnologie di precisione che nessun contadino può permettersi, col risultato di un’innovazione che passa tutta attraverso le grandi industrie. Quello che serve al piccolo contadino per produrre cibo buono, che possa sfamare noi in modo sano e retribuire lui in modo dignitoso, è ad esempio una formazione seria su come proteggersi dai rischi climatici e come migliorare la fertilità del suolo, e su questo fronte non vedo imprese accalcarsi. Col risultato che molti agricoltori per avere informazioni e consigli si rivolgono ai loro fornitori: le aziende agrochimiche.

Un tentativo di democratizzare i dati per aiutare gli agricoltori ad accedere a informazioni imparziali lo sta facendo Farmers Business Network, una rete di agricoltori che mettono in condivisione i propri dati, in forma anonima, su tutto il processo agricolo. Insomma un archivio di analytics che, in base alle esperienze di tutti, aiuta il singolo a prendere decisioni. Questo caso è utile anche a noi che cerchiamo di raccontare il cibo e l’agricoltura perché ci ricorda di non affezionarci all’ideale bucolico del contadino solitario e armato solo della sua saggezza popolare. Il mestiere dell’agricoltore è (e deve essere raccontato come) un mestiere di alto profilo, che coniuga sapere tradizionale e versatilità tecnologica e che è capace di fare rete. E deve essere aiutato con investimenti e ricerca che danno potere ai piccoli: con la formazione certo, con i dati perché no; visto che un sistema alimentare basato sull’accentramento nelle mani di poche grandi industrie – come sta accadendo – non conviene davvero a nessuno.

 

Foto di copertina: Diletta Sereni

Twitter @dilettasereni

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