Innovazione
Nel tessile arriva la rivoluzione al plasma. È italiana ed è in cerca di mercato
Immaginate un tessuto, di lana o di cotone, lungo 5.000 metri. Cinque chilometri dello stesso colore, o con sfumature di colore uniformi. Il tutto attraverso un solo processo di tintura, ottenendo più del triplo di quanto sia possibile con il procedimento tradizionale, che si ferma a 1.500 metri e che in nessun modo potrebbe replicare le stesse nuance in più fasi. Di che farci quasi 1.700 abiti (completi di giacca, pantalone e gilet) tutti dello stesso colore o quasi, con un tessuto solido e resistente. E un risparmio per le aziende del 58% di acqua e di almeno il 70% di energia.
La rivoluzione dell’industria tessile parte dal distretto specializzato di Biella, con un progetto avviato nel 2010 e concluso – con tanto di prova industriale – due anni fa con il polo scientifico dell’Environment Park di Torino. Grazie a una tecnologia mai esplorata sinora in questo contesto: il plasma. «Il plasma – spiega Domenico D’Angelo, responsabile del progetto presso il Plasma Nano-Tech dell’Envipark – si trova in natura come quarto stato della materia (lo sono ad esempio l’aurora boreale e i fulmini, ndr): è un gas ionizzato che può essere generato sia in vuoto sia a pressione atmosferica e che applicato sui materiali, in questo caso i tessuti, può modificarne la superficie dal punto di vista chimico-fisico, facilitando il legame con il colorante».
Il nuovo processo, sviluppato nel progetto chiamato Wooltex, consiste nel passare il tessuto di lana in un macchinario dove entrerà a contatto col plasma (l’effetto è quello di una leggera fiamma) per poi essere tinto anche a freddo e con un solo lavaggio, mentre nella tecnica tradizionale i lavaggi sono tre e la temperatura viene portata fino a 98 gradi per 40 minuti. «Per un quantitativo standard da 420 kg di tessuto (questa è la capienza delle vasche dove di solito vien e effettuata la tintura, ndr) si usano così solo 9.000 litri d’acqua anziché 16.200. Inoltre il processo è continuo e dura pochi minuti, compresa l’applicazione del plasma, arrivando a tingere fino a 5.000 metri». Mentre colorando i tessuti come si è fatto finora, un solo procedimento dura 284 minuti, è discontinuo (necessita di più fasi distinte) e copre solo fino a 1.500 metri di prodotto.
Un notevole guadagno economico, ambientale e di tempo. Ma soprattutto di qualità: «Il plasma – specifica l’ingegnere chimico del centro piemontese – rende i tessuti più solidi e resistenti al lavaggio». Per non parlare della commerciabilità: “Nessun procedimento tradizionale è in grado di dare un colore così uniforme su una quantità così grande”, conferma Laura Grosso, presidente del lanificio Tessilgrosso, l’azienda biellese che ha investito 400.000 euro nel progetto e che ne detiene la proprietà intellettuale e industriale insieme all’altro partner del progetto, la Tintoria Tonella. Tessilgrosso ha fornito tessuti per i test, che si sono svolti dal 2011 al 2013 e che sono stati in tutto «ben 1.640», ricorda D’Angelo. Tonella si è invece occupata del finissaggio (la fase in cui andrà a incidere la nuova tecnologia), dando il colore ai tessuti lavorati col plasma, con un investimento di 250.000 euro. Le due realtà sono relativamente piccole (Tessilgrosso fattura 10 milioni) e fanno parte del noto distretto biellese, polo d’eccellenza del made in Italy, che nel primo semestre 2015 ha visto l’export crescere del 7%, superando il mezzo miliardo esportato nella prima metà dell’anno. A Biella sono specializzati nella lana, che viene importata da Paesi come Australia, Pakistan e Nord Europa e poi trattata e venduta alle aziende, che ne ricavano i vestiti che vediamo nelle vetrine dei negozi.
La svolta si presta soprattutto alla grandissima distribuzione e dunque a mercati come quello americano, con multinazionali che producono quantitativi enormi e vendono in tutto il mondo. O almeno così avrebbe dovuto essere. «Quando abbiamo avviato questo progetto- prosegue l’imprenditrice biellese – avevamo grandi prospettive sul mercato statunitense, che per il nostro settore è quello di riferimento. All’epoca un terzo dei nostri prodotti veniva comperato dalle multinazionali americane, che sono tra le poche ad essere in grado di acquistare quantitativi importanti, per poi dirottarli ai loro confezionatori in tutto il mondo: Turchia, Cina, India. Ora questa quota si è ridotta al 5 per cento».
Se è vero che l’export del distretto quest’anno è cresciuto e che questa crescita, grazie all’euro debole, si è verificata soprattutto verso il mercato statunitense, è altresì vero che per qualcuno quel mercato aveva però già fatto in tempo a deteriorarsi negli anni in cui la moneta europea valeva dagli 1,4 in su: neanche la ripresa dei consumi spinge a tornare al vecchio fornitore, se nel frattempo se ne sono trovati altri più convenienti. «Il dollaro debole e la crisi hanno cambiato il mercato americano: da quanto mi risulta le grandi aziende non comprano neanche più in Cina ma direttamente in India o Vietnam, che sono più competitive», osserva Laura Grosso.
Qualità al ribasso ma soprattutto un cambio di orientamento del mercato stesso, che paradossalmente non lo rende pronto per sfruttare la grande innovazione da parte delle pmi. «Negli ultimi tre quattro anni – conferma D’Angelo – è cambiata la tendenza: prima venivano chiesti grandi quantitativi dello stesso colore, e il processo di tintura a freddo Wooltex sarebbe stato perfetto per questo tipo di richiesta. Ora invece si prediligono tessuti di poche centinaia di metri per tipologia di colore». Per diversificare i prodotti, a seconda delle mode, delle stagioni, dei mercati da aggredire. E perché la tecnologia al plasma non dovrebbe valere anche su metrature inferiori? «I nostri test ci hanno rivelato che la sostenibilità economica del processo di tintura a freddo in continuo della lana scatta lavorando almeno 2.000 metri per ogni colore», spiega il chimico dell’Envipark. Al momento quella quantità non ha però mercato, né negli Stati Uniti né altrove.
Non servirebbe a nulla neanche abbassare i prezzi, per riconquistare i clienti – non tutti però – che hanno preferito la competitività alla qualità. Non è anzi tecnicamente possibile, visto che l’enorme risparmio e l’ottimizzazione produttiva sono effettivi per le aziende ma riguardano solo la colorazione del tessuto, che è una piccola parte della filiera, quasi irrilevante sul prezzo finale del prodotto. «Il finissaggio, così viene chiamato, incide sul 5% del prezzo finale – conferma D’Angelo -. Quindi qualsiasi strategia finalizzata unicamente ad una riduzione dei costi non darebbe risultati significativi».
La sfida è dunque quella di adattare questa rivoluzionaria tecnologia, 100% made in Italy (concepita e applicata finora solo in Italia, sebbene al progetto abbiano partecipato anche due aziende belghe), alle esigenze del mercato ossia a metrature di colore ridotte. «Chiunque lavora nel settore – ricorda il chimico torinese – può rendersi conto di che proporzioni ha questa innovazione». Che manca solo di essere brevettata: «Stiamo aspettando – spiegano Tessilgrosso e Tonella -, ci manca ancora qualche passaggio per la completa implementazione industriale, per la quale possono servire in tutto fino a cinque anni. Non vogliamo dare vantaggi ai nostri competitor». Cinque anni, come i chilometri di tessuto con sfumature il più possibile uniformi dello stesso colore. Circa 1.700 abiti di alta qualità, fatti con un tessuto lavorato e colorato in pochi minuti. Una novità tutta italiana, che nessuno al mondo è in grado di pareggiare, ma che vive un grande paradosso: non trova, al momento, l’acquirente.
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