Innovazione

Stay hungry: la pancia vuota delle startup italiane

11 Ottobre 2017

L’immaginario sull’innovazione è stato invaso dalla Silicon Valley, costringendo il pubblico di tutto il mondo a figurarsi il fondatore di una startup sempre dietro un paio di occhiali tondi da nerd, dentro il dolcevita nero di Steve Jobs, o sotto la felpa di Zuckerberg. Purtroppo, per chi si avventura in giovane età nella formazione di un’impresa fuori dai confini USA, il motto «stay hungry» rischia di perdere il suo intento metaforico, e di trasformarsi realmente nell’elemosina di qualche finanziamento – se non proprio nei morsi della fame all’ora dei pasti.

Il Ministero dello Sviluppo Economico in Italia però non si è lasciato contagiare dalla fantasia californiana, e sembra essersi preoccupato di allontanare lo spettro della denutrizione – se non dalle imprese, almeno dai loro (potenziali) clienti. Nel Registro delle Imprese, sotto la sezione Startup Innovative, sono elencate 45 aziende che si occupano di agricoltura e pesca, 34 ristoranti, 69 industrie alimentari e delle bevande. Gelati, funghi, bambù, verdure bio, caffè, trovano ampia ospitalità negli uffici del Ministero che presidiano gli incentivi alla creatività e al progresso scientifico e tecnologico: se Leonardo vivesse nell’Italia di oggi, farebbe il contadino o lo chef – altro che progetti di canalizzazione, e studi di anatomia.

Su 7.866 imprese iscritte nel Registro, oltre al segmento dell’alimentazione, trovano posto anche 68 società dedite all’abbigliamento, 28 che lavorano il legno, 23 produttori di mobili, 20 installatori e manutentori, 27 costruttori di edifici, 316 commercianti all’ingrosso e al dettaglio, 16 corrieri, 8 gestori di alloggi, 102 agenzie pubblicitarie, 2 veterinari, e più di 220 società di consulenza di direzione. Meno della metà del totale corrisponde all’idea del nerd di genio, o del talento in camice bianco, che ci si aspetterebbe in un cenobio di innovatori: circa 2.380 startup appartengono al gruppo della produzione di software, ma includono anche attività di consulenza informatica classica; altre 1.060 rientrano nell’ambito della ricerca scientifica.

Qualcosa nella normativa voluta dal ministro Corrado Passera, con il DL 179/2012, ha fallito nel suo compito di stanare i protagonisti del progresso tecnologico e scientifico, e di filtrare i casi di «falsi positivi». Per iscriversi nel Registro delle Startup Innovative le aziende devono presentare un’autocertificazione in cui dichiarano di essersi costituite da meno di 60 mesi, di avere la sede principale in Italia, di aver conseguito (dal secondo anno di esercizio) bilanci con un valore di produzione non superiore a cinque milioni di euro, di non aver mai distribuito utili, di aver incluso nell’oggetto sociale «la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico», di non essere state fondate attraverso una fusione o una scissione societaria – e infine, di possedere almeno uno di questi tre requisiti: investire in ricerca e sviluppo una spesa uguale o maggiore del 15% del valore di produzione dell’impresa; coinvolgere una quota di dottorandi (o dottorati) pari ad almeno un terzo della forza lavoro complessiva, o una quota di laureati magistrali di almeno due terzi; aver depositato almeno un brevetto relativo a invenzione industriale, biotecnologica, o una topografia di prodotto a semiconduttori o una nuova varietà vegetale.

Autocertificazione, cinque anni di vita, tetto massimo (non trend di crescita) di fatturato, assenza di utili, dichiarazioni in oggetti sociali: la selezione dei settori di mercato era solo un sintomo del problema. Infatti, altre due criticità si fanno subito avanti: le startup italiane sviluppano un volume di affari da fame, e ottengono per il loro decollo finanziamenti da fame. Si possono contemplare molte definizioni di startup; ma tutte concordano sul fatto che la prospettiva di un’impresa del genere è quella di crescere dal punto di vista del fatturato, fino a diventare appetibile per invenstitori finanziari internazionali. Peraltro, la scalata dovrebbe essere conclusa in tempi piuttosto veloci. La StartUp European Partnership è un’istituzione dell’Unione che misura il numero e le caratteristiche delle imprese che sono riuscite a mettere a segno lo «scale up», cioè hanno superato la fase di apertura e di lancio, e si sono consolidate sul mercato rastrellando capitali e fatturato al di fuori del Paese di origine. Le società italiane che si sono guadagnate un posto al sole sono 135, circa l’1,7% delle imprese iscritte nel Registro del Ministero dello Sviluppo Economico, con un bottino complessivo di 900 milioni di euro in finanziamenti. Le startup britanniche – per fare un paragone – sono state 1.512, con ingressi per 20,2 miliardi; quelle tedesche 442, con una raccolta da 10,2 miliardi.

Difficile fare meglio, quando 6.207 startup su 7.866 sono nella fascia di valore di produzione tra 0-100 mila euro, 7.100 contano tra 0 e 4 collaboratori, e 4.968 vantano un capitale investito tra 1 e 10 mila euro. Solo 1.474 contano su una forza lavoro almeno in maggioranza giovane. L’Osservatorio Startup Hi-tech del Politecnico di Milano dichiara che nel 2016 gli investimenti dei capital venture italiani sono cresciuti del 24% rispetto al dato del 2015, raggiungendo quota 182 milioni di euro. Eppure il loro contributo equivale a 1/7 dello sforzo sostenuto dai loro colleghi tedeschi, e ad 1/6 di quanto fanno i francesi. Inoltre, l’età media degli imprenditori che si assicurano un finanziamento nel nostro Paese è di 38 anni: una scelta che tende a privilegiare l’esistenza di rapporti commerciali già consolidati da parte del beneficiario, rispetto al rischio su progetti e idee davvero inediti.

Senza una svolta seria, molti giovani con buone idee in Italia saranno condannati a rimanere a digiuno di opportunità.

 

Paolo Bottazzini

@eckhart72

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