Innovazione

Smart working, se ci fermiamo per qualche bar come supereremo il petrolio?

7 Luglio 2020

La linea delle montagne contro il cielo azzurro è lo screen saver reale che ho il lusso di concedermi in questa giornata lavorativa di inizio luglio. Sono uno “smart worker” da 8 anni, il 100% della mia vita lavorativa, e oggi lavoro da un bellissimo non-ufficio lontano dalla città. Nell’ultimo anno sono andato in ufficio non più di 30 volte. Negli ultimi 3 ho aiutato decine di aziende a concepire lo smart working come un percorso di cambiamento profondo e ho raccolto centinaia di storie e opinioni diverse.

Prima del Covid, ero parte di una minoranza: gli smart worker in Italia a dicembre 2019 erano poco meno di 600 mila, seppure in crescita costante da anni. Mi sentivo, di conseguenza, guardato a fasi alterne con un sentimento di sospetto o di invidia. Allo stesso modo, al netto degli impatti dei nuovi stili lavorativi su alcune macro-tendenze “urbane” (si pensi al mondo immobiliare e alla crescita esponenziale degli spazi di coworking), quello sullo smart working era un dibattito piuttosto marginale, quasi totalmente perimetrato nel mondo delle organizzazioni e del lavoro.

Probabilmente lo ricordate anche voi il ring in cui prendeva forma lo scontro tra due approcci al lavoro così distanti: da una parte la cultura micro-imprenditoriale tipicamente nostrana, ancora largamente radicata su modelli novecenteschi di organizzazione del lavoro, presidio dello spazio fisico, orari rigidi, attenzione alle regole e al controllo, scarsa fiducia; dall’altra la cultura di stampo nordeuropeo/anglosassone incentrata sul benessere delle persone, sull’equilibrio tra vita professionale e personale, su spazi di lavoro flessibili, sui risultati più che sugli orari di lavoro.

Prima del Covid, le voci entusiaste facevano leva sulle potenzialità del lavoro agile come acceleratore del cambiamento e come spinta per le organizzazioni a “scommettere” sulle persone, concedendo loro fiducia, responsabilità e margini di libertà più ampi: aspetti importanti nelle aziende tanto quanto nella pubblica amministrazione, laddove la remotizzazione e flessibilizzazione di alcune attività può generare enormi impatti positivi sulla qualità dei servizi al cittadino.

Le voci critiche, al contrario, sottolineavano i rischi potenziali di un eccessivo isolamento: dal rischio overwork, al diradarsi delle interazioni reali (in molti contesti un’importante fonte di ossigeno per lo sviluppo di idee, non sempre sostituibile dall’intermediazione tecnologica), e più in generale il crescente indebolimento della capacità di organizzazione e aggregazione della comunità dei lavoratori intesa come macro-famiglia in grado di mobilitarsi per il riconoscimento di diritti collettivi e per la (ri)costruzione di un senso di appartenenza e solidarietà tra pari.

Certo è che il far parte di un’organizzazione più o meno “agile” poteva (e può) cambiare completamente il significato che ciascuno dà alle parole lavoro, fatica, libertà, tempo libero, motivazione, coinvolgimento, comunità, città. Mica una cosa da poco.

Poi, d’improvviso, è arrivato il Covid. E ha costretto tutti (entusiasti e scettici, innovatori e conservatori) ad “arrendersi” allo smart working come unico modo per garantire continuità alle attività lavorative nonostante gli uffici chiusi.

Certo, quella che abbiamo vissuto è stata una forma di telelavoro forzato chiamata con il nome sbagliato (cioè l’esperienza meno “smart” che ci potessimo immaginare), ed è bene ribadirlo per evitare di inquinare il dibattito con una grande incomprensione di fondo sulle parole. Chiariamoci quindi: il lavoro agile (o smart working), nella forma promossa da chi è convinto dei suoi benefici, è quello normato dalla legge 81/2017, ovvero una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro che consente di svolgere, in accordo con il datore di lavoro, parte della prestazione lavorativa al di fuori dei locali aziendali, con orari potenzialmente più flessibili, e differenziandosi dal telelavoro per la possibilità di lavorare in luoghi diversi (non necessariamente casa propria), e senza l’obbligo per il datore di lavoro di mettere a punto una postazione di lavoro “a domicilio”.

Eccola dunque, la grande rivoluzione di questi mesi: durante il lockdown, il lavoro agile è stato sperimentato da 8 milioni di lavoratori, consentendo non solo di dare continuità al lavoro di tante aziende ed enti pubblici, ma soprattutto contribuendo in modo significativo ad abbattere enormi resistenze culturali che persistevano nelle nostre organizzazioni da sempre.

Certo, qualcuno è stato più fortunato di altri e senza dubbio il lavoro agile ha anche messo a nudo o esasperato disuguaglianze esistenti, portando nuove frecce nelle faretre dei suoi detrattori. Ma nel complesso, il fenomeno resta molto positivo se solo pensiamo a quanto sarebbe stato impossibile, fino a pochissimi mesi fa, immaginarsi intere organizzazioni operare completamente in remoto.

Ma lasciamo parlare i numeri. I dati raccolti durante questi mesi (da Variazioni, la società di consulenza con cui collaboro) ci dicono che su un campione di 25mila risposte la qualità del lavoro è rimasta costante per il 60% del campione e migliorata per il 26%. I responsabili dichiarano che gli obiettivi dei propri collaboratori sono raggiunti nel 98% dei casi. L’86% dei rispondenti vorrebbe continuare a lavorare in modalità agile anche dopo le restrizioni sanitarie.

Anche il sondaggio condotto dal Comune di Milano sui suoi dipendenti (6.800 risposte) registra tendenze simili: un grado di soddisfazione molto alto (7,7 in una scala da 1 a 10) e un giudizio sulla produttività individuale che per il 67% dei rispondenti è invariata rispetto al lavoro in presenza e per il 30% dei casi è aumentata grazie allo lavoro da casa.

Ma l’aspetto ancora più interessante è che il Covid ha riposizionato lo smart working su un terreno di discussione molto più ampio e trasversale, mettendone in risalto le potenzialità dirompenti non solo nel mondo delle organizzazioni ma anche in relazione all’intero sistema economico, ambientale, sociale e urbanistico delle nostre città e del nostro Paese.

All’improvviso, ci siamo accorti che abbiamo tra le mani uno strumento che in un sol colpo potrebbe aiutarci a ridurre drasticamente il traffico delle nostre città, restituirci tempo per noi stessi, ma soprattutto dare concretezza non solo all’idea di città policentrica (quella città “dei 15 minuti” d’ispirazione Parigina poi ripresa nel Piano Milano 2020, che punta a creare comunità autosufficienti all’interno di ogni quartiere) ma persino all’idea di Paese policentrico, ripianando parte del divario tra Nord e Sud, centro e periferie, città e aree interne e restituendo valore a quegli asset naturali, climatici e paesaggistici a cui milioni di persone continuano a rinunciare, calamitati dalla opportunità/necessità di vivere nei “place to be”. In queste settimane sono nati neologismi come “southworking” (l’idea di lavorare dal Sud Italia per aziende del Nord) e più in generale non sembra più un miraggio, per tanti lavoratori, liberarsi dalla dipendenza dalle grandi città del Nord, che offrono certamente opportunità e prospettive, ma impongono costi di vita elevati e spesso escludenti.

La rottura dei vincoli spazio-temporali tra datore di lavoro e lavoratore (che sia totale come nel caso dell’home working forzato o parziale come in un modello di lavoro agile più leggero), quindi, è la rottura di un intero sistema. Quella rottura che, nella sua accezione più ampia, in molti hanno immaginato, predetto, auspicato, e che trova nel lavoro agile uno dei possibili tasselli di realizzazione.

Scomodando Milton Friedman: la risposta a una crisi è funzione delle idee che circolano in quel momento. E allora la domanda è: quale idee circolano oggi? Quale città sogniamo? Quale Paese sogniamo?

Quello che ci si aspetta dai leader è che ci aiutino a mettere a fuoco “cosa ci può essere dopo”, a rendere possibile l’impossibile. E che lo facciano con convinzione e con costanza, perché è di questo che si nutre il cambiamento.

Il Covid può essere una grande occasione per ripensare al sistema, ma solo se lo vogliamo. È per questo che per i leader progressisti non è questo il momento di mostrare timidezza.

Nella drammaticità di questa tragedia, abbiamo avuto la fortuna di vedersi aprire uno squarcio inatteso in un dibattito che pareva ancora troppo ingessato nonostante le “sveglie” suonate da movimenti divenuti ormai globali.

Certo, serve essere consapevoli della complessità dei sistemi in gioco, ma non è tempo di negare il cambiamento o diventare vittime del conservatorismo.

D’altra parte, se la spinta all’innovazione si arresta di fronte alle difficoltà di qualche bar del centro (con tutto il rispetto), dove troveremo la forza per riconvertire l’industria del petrolio, della plastica, delle auto o dell’allevamento intensivo?

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