Innovazione

Prima di domani. Investiamo in resilienza pubblica e privata

17 Aprile 2020

Servizi pubblici, universalismo e welfare bene comune

Le domande che ci siamo posti qui, che abbiamo posto ai nostri interlocutori ed esplorato passando in rassegna i moltissimi contributi che professionisti, analisti, operatori stanno producendo in questo periodo, vogliono tentare di ricostruire un quadro di insieme, che rappresenti una visione sistemica, quella che connota il nostro approccio di attori e designer di processi di cambiamento.

Giunti alla terza puntata della serie “Prima di domani”, abbiamo maturato anche un atteggiamento diverso, più radicale se vogliamo, nel farci domande partendo dai fondamentali, guardando in faccia la realtà e le vere sfide che ci pone, a cui la politica poco coraggiosa dovrà dare risposta, e non lo farà senza essere incalzata da una domanda sociale, economica e civica più consapevole.

Grazie alle conversazioni con Marco Marcatili, Responsabile sviluppo di Nomisma e Flaviano Zandonai, Open innovation manager del gruppo cooperativo CGM e con il contributo puntuale dei nostri soci Marco Tognetti e Andrea Rapisardi abbiamo provato a ragionare sui 5 tasselli fondamentali che secondo noi compongono il puzzle.

1 – Scegliere e con quali criteri

Lo hanno già detto tutti, a ogni livello e in ogni consesso: la crisi economica innescata dalla pandemia di coronavirus sarà peggiore della Grande Depressione. Ma la parola definitiva viene dal Fondo monetario internazionale che scende più nel dettaglio e indica nell’Italia uno degli anelli più deboli in Europa, seguita solo dalla Grecia. L’Italia paga il conto più salato: il Pil italiano quest’anno si contrarrà del 9,1% e peggio di noi farà solo la Grecia con un -10%. Nel 2021 il Pil italiano rimbalzerà del 4,8%, mentre a ottobre l’Fmi aveva previsto un +0,5% nel 2020 e un +0,8% nel 2021. Quest’anno il tasso di disoccupazione dovrebbe salire al 12,7% per poi scendere al 10,5% nel 2021.

La coperta dell’investimento pubblico quindi, a livello statale e ancor più a livello delle amministrazioni locali (molte delle quali sono a rischio default) sarà corta. Dovremo fare i conti con questo. Dovremo ricordarci che il nostro SSN, il primo servizio universalistico di garanzia delle cure voluto dal primo ministro della Salute donna, Tina Anselmi, nel 1978, è stata una delle grandi conquiste del nostro Paese, che molte altre nazioni invidiano. Grazie ad esso è stato possibile per esempio, contenere al minimo la mortalità infantile e materna, nonché aumentare le aspettative di vita nell’intera nazione; ha rappresentato una svolta cruciale e una tappa dell’evoluzione della democrazia nel nostro Paese. È stato affermato un principio, quello dell’universalità dell’accesso alle cure, dal quale è impossibile ormai fare marcia indietro, e ci si può solo chiedere come proseguire nella sua difesa. Dovremmo ricordarci anche delle risorse economiche di cui è stato privato in questi anni e di quelle dirottate anche indirettamente alla sanità privata (leggi detassazione misure di welfare aziendale); di come, a seguito della regionalizzazione del sistema sanitario e delle esigenze degli equilibri di finanza pubblica si sia sacrificata la parte dei servizi sanitari tempestivi, uniformi, sicuri e innovativi su tutto il territorio nazionale, corrodendo di fatto il valore universale di questo servizio. Gli effetti sanitari diretti ed indiretti della crisi si prolungheranno per molto tempo. Mancano almeno 8 miliardi (Cosmed) per riportare il finanziamento del SSN al 7% del PIL cioè sullo standard medio europeo ante contagio.

Di fronte al dramma sanitario e sociale dovuto alla pandemia quindi, è tempo di scelte precise in materia di allocazione di protezioni e risorse. Da un lato definire quali sono i servizi pubblici fondamentali a cui dare priorità e tra questi il primo è sicuramente quello sanitario. “Nel “durante” e nel subito dopo – dice Marco Marcatili – salteranno molti bilanci pubblici, non basterà un aggiustamento delle voci tradizionali; sono oggi in ballo alcune scelte radicali e sarà una questione di criteri”. Criteri per rivedere quali saranno i servizi pubblici erogabili, rileggendo la nuova domanda sociale; e criteri per non “stressare” troppo l’universalismo ed essere sostenibili. Guardando in modo esteso al welfare state, è lecito domandarsi se, con la famosa coperta corta, si dovrebbe andare verso un universalismo selettivo, verso un’ impostazione secondo la quale è necessario conciliare il welfare di  cittadinanza con la crisi delle risorse fiscali e finanziarie, rendendo la soglia di accesso alle prestazioni elastica e flessibile e in definitiva modulabile in relazione alle risorse disponibili e allo spostamento della nuova domanda sociale. Ma, nella necessità di farlo sarà fondamentale definire quali siano i criteri che debbano presiedere alle scelte, all’ operazione volta a stabilire l’asticella al di sopra e al di sotto della quale erogare o meno servizi, sussidi ed altri incentivi di tipo economico. Questi criteri saranno alla base del tipo di società che vogliamo costruire; sono la domanda a cui la politica dovrebbe rispondere e la responsabilità che si dovrebbe assumere.

In questo contesto, rispetto ad una drastica rimodulazione dei servizi pubblici, quale sarà il destino degli attori che oggi erogano quei servizi a valenza pubblica? Questa secondo Marcatili è l’occasione per ripensare entrambi i ruoli: quello pubblico e quello del privato sociale, che dovranno entrambi cambiare. 

2 – Innovare lo Stato

Marco Marcatili nella nostra intervista e nell’articolo di Vita, ama distinguere tra un “durante” ed un dopo. Un durante che stiamo già vivendo, dal quale non possiamo sfuggire, e che ci sta consegnando elementi utili per fronteggiare le sfide e per prefigurare alcuni scenari. E’ in questo durante che dobbiamo ripensare al ruolo del pubblico e a delle opzioni praticabili fin da subito.
Un pubblico che deve modificare sensibilmente le proprie logiche di investimento: 1) avendo la capacità di selezionare i partner migliori, potendo valutare l’impatto dell’azione che fanno e che dovrà contemporaneamente soddisfare le dimensioni sociale, economica ed ambientale; 2) investendo sulla domanda prima ancora che sull’offerta, in questo modo, evitando una deriva assistenzialista, si potranno generare le condizioni per una reale ripartenza dell’offerta, riattivando le strutture sulla base di quello che la domanda sociale vuole; 3) infrastrutturando sempre più servizi piuttosto che sussidi o contributi diretti ai beneficiari. 4) Un pubblico che – secondo Marcatili – non è ancora Stato imprenditore, ma dovrà essere Stato regista. Nel “durante” lo Stato imprenditore è troppo lontano.
L’essere regista oggi è la scelta che si può praticare utilizzando realmente il processo di co-progettazione, per altro previsto dall’art.55 del Codice del Terzo Settore – come sottolinea Zandonai –  che sarebbe in grado di liberare il terzo settore dal ruolo ancillare e residuale in cui è stato relegato, abilitandolo ad essere soggetto non solo in grado di eseguire servizi e trovare soluzioni, ma anche di individuare i nuovi bisogni. In questa logica andrebbero rilette le nuove PPP (Partnership Pubblico Privato) in cui un terzo settore protagonista progetta insieme allo Stato l’infrastrutturazione di nuovi servizi in cui trasformarsi da operatore sociale a imprenditore sociale. Soprattutto in questo frangente, dove la necessità di prendere decisioni e definire azioni in tempi rapidi ha estremizzato una tendenza verticistica da parte dello Stato, attingere all’intelligenza collettiva che il terzo settore può esprimere diviene ancora più cogente per essere in grado di rispondere in modo adeguato ai nuovi bisogni sociali.

3 – Innovare il Terzo Settore: da operatori sociali a imprenditori sociali

Un salto di qualità e di mentalità viene richiesto anche al terzo settore. Oggi qualsiasi categoria imprenditoriale sta cambiando mindset e ri-orientando la propria responsabilità agli impatti su comunità, sociale e ambiente“Oggi migliorare la qualità delle relazioni umane, occuparsi di una sfida sociale o ambientale, come quella della salute, dell’acqua e dell’alimentazione, deve essere concepito come un vero e proprio business, non come atto filantropico esterno o indipendente dal core business. In questo senso l’impresa non è più un’organizzazione chiusa, ma un’infrastruttura aperta a cui viene richiesto di migliorare la qualità di un territorio e assicurare la sostenibilità dello sviluppo umano. Il cruscotto dell’imprenditore insomma sta virando sui temi dell’impresa sociale, mentre l’operatore sociale fa fatica a diventare imprenditore” (Marcatili).

E’ una questione di ruolo. Un ruolo che lo Stato può abilitare, ma anche un ruolo che il terzo settore potrebbe evocare a sé, grazie a: 1) una capacità propulsiva endogena che potrebbe essere innescata da logiche di rete in grado di attenuare le fragilità dei singoli soggetti (Marcatili); 2) un cambiamento culturale che spinga questi soggetti ad agire da una logica incrementale ad una logica trasformativa (Zandonai); 3) alla capacità di trasformarsi da operatori sociali, che agiscono in outsourcing di servizi di pubblico interesse pagati dallo stato, ad imprenditori sociali che agiscono sul mercato, ricercando un equilibrio tra domanda e offerta.

E’ una questione di competenze. Sulle capacità di trasformazione del terzo settore, quindi, si aprono ulteriori sguardi: 1) sul tema delle competenze presenti e necessarie; 2) su come sostenerne il capacity building, innovando ad esempio le finalità di erogazione delle Fondazioni e dei bandi pubblici spostando i contributi dai progetti ai programmi di sostegno all’innovazione organizzativa di questi soggetti. I progetti, in tempo di crisi, si possono fermare. Ma per ripartire c’è bisogno di organizzazioni strutturate, capaci di adattarsi, in grado di valorizzare le competenze interne e di accogliere supporto esterno.
Investire sulle organizzazioni permette non solo di far ripartire i progetti, ma anche di contare su realtà dotate delle giuste competenze – o anticorpi – per renderli adatti al contesto che cambia. 3) sulla capacità di gestire e reperire risorse. Come agevolare quindi  la costruzione di progettualità nelle quali la ricerca di un equilibrio economico deve essere bilanciata da servizi economicamente accessibili?

In tutti i business plan di questo tipo di servizi sociali, alla persona, pesano i forti investimenti materiali (immobili, attrezzature sanitarie, arredi etc) che hanno un’alta incidenza in termini di esborso all’anno uno e un peso sul business plan che si spalma negli anni. Il primo meccanismo che è stato inventato per gestire questo tipo di investimenti è l’ammortamento; un modo in cui la finanza generale ha voluto facilitare i conti delle aziende.

Forse ora, in una logica di infrastrutturazione dei servizi e di selezione dell’investimento pubblico, l’idea di costruire delle scatole (fondi pubblici) destinate ad acquisire e dare in gestione gli asset materiali utili all’installazione di “software sociale” (case di cura, asili, etc), potrebbe essere immaginabile e un modo di intendere lo stato innovatore nella sua accezione più imprenditoriale. Un soggetto pubblico che, di fronte ad un business plan sostenibile, possa divenire investitore e proprietario di attrezzature e immobili (di ciò che ovviamente ha interesse pubblico: sanità, istruzione, scuola) con la stessa logica di ritorno del privato, ma potendo ammortizzare l’investimento con tempi molti più lunghi e capitali molto più pazienti, non disperdendo inoltre risorse che rimangono vincolate ad una proprietà (rivendibile). Questo consentirebbe di abbattere il costo di start up di nuove imprese sociali, concentrando energie e risorse su progettazioni innovative più efficaci nel rispondere ai bisogni; e consentirebbe allo stato di essere non solo il soggetto regista e abilitatore del rischio privato, ma anche il soggetto che questo rischio lo mitiga evitando di finanzializzarlo. Per dirla à la Mazzucato – uno Stato capace di assorbire rischi collettivi ma anche di investire, in grado di liberare il potenziale del privato ma senza rinunciare alla propria leadership.

4 – L’ impatto

La questione della misurazione dell’impatto (sociale, ambientale ed economico) degli interventi è tanto rilevante quanto complessa. Introdurre infatti logiche di misurazione, indicatori e strumenti di monitoraggio nel sistema degli appalti consentirebbe di poter valutare, attribuendo dei reali punteggi, le progettualità migliori, evitando il mero ricorso all’economicità delle proposte. Ma in questo caso la difficoltà risiede proprio nel definire la misurabilità di outcomes e non di outputs o performance.  Ciò non toglie che ci debba essere un nuovo protagonismo del pubblico che si dota di strumenti per poter scegliere partner privati qualificati. E la misurazione dell’impatto, vincolando sulla valutazione tecnica di manifestazioni di interesse o progettualità su gare, è un criterio oggettivo che potrebbe essere un buon appiglio. 

L’alternativa: in una logica di rinnovamento delle forme di PPP, poi, intervengono nuovi strumenti come gli outcome-based contracts (o impact social bond), che seguono la logica del partenariato pubblico-privato (Ppp), dove a differenza dei modelli più tradizionali di Ppp, la Pubblica amministrazione non commissiona e paga per la disponibilità di un’infrastruttura o di un servizio, ma per il raggiungimento di determinati risultati e impatti sociali. La logica sottostante si basa sull’idea che questi risultati e impatti sociali si traducano in maggiori risparmi futuri (dovuti proprio alla riduzione dei maggiori costi per i bilanci pubblici e per la società di un problema sociale non risolto), grazie ai quali remunerare il capitale dei soggetti privati finanziatori del progetto.
A livello internazionale – secondo uno studio di SDA Bocconi – si è trattato di progetti di piccole dimensioni, con una rilevanza circoscritta principalmente a livello locale, scarsamente replicabili e livello nazionale e internazionale, che difficilmente hanno attratto investitori privati istituzionali (Sole24Ore). In Italia manca ancora una progettualità sviluppata a riguardo; l’implementazione di questi contratti richiederebbe una maggior visione da parte degli amministratori locali e dei dirigenti pubblici, che spesso preferiscono soluzioni tradizionali in quanto percepite come più semplici e meno rischiose. Gli outcome-based contract, invece, per loro natura potrebbero stimolare la capacità dell’operatore economico di individuare soluzioni e modelli in grado di rispondere a determinati fabbisogni e quindi possono generare soluzioni che non sarebbero possibili nell’ambito di schemi tradizionali di appalto, proprio perché verrebbe a mancare l’incentivo a conseguire il risultato sociale.
E sebbene non sarà la finanza di impatto lo strumento che ci salverà, ma uno di quelli che potrà concorrere al raggiungimento di alcuni obiettivi, soprattutto con l’intervento di una mano pubblica, forse l’emergenza che stiamo vivendo potrà essere uno stimolo anche per un nuovo protagonismo del movimento della finanza e degli investimenti ad impatto sociale, come suggerito da Giovanna Melandri.

 

5 – La leva fiscale

Fra qualche mese ci sarà un’economia da ricostruire e un debito pubblico che sarà ancora più imponente e ci saranno solo due strade da percorrere: razionalizzare e selezionare la spesa e/o ridistribuire diversamente il carico fiscale. Certamente ci sono molte voci della spesa pubblica che si possono rimodulare, ma non si può pensare che ulteriori tagli della spesa per sanità e welfare, si possano compensare con la finanza d’impatto, le donazioni, la filantropia finanziaria.

Quindi tra queste ricostruzioni del “dopo emergenza” riteniamo che uno dei temi fondamentali riguardi la riedificazione di un sistema di tassazione equo, per il quale costruire anche una onesta e veritiera narrazione pubblica e politica, oltre gli storytelling e la ammorbante retorica sulle tasse dipinte come principale problema politico (Civic).

L’equità non riguarda solo la rimodulazione delle aliquote in modo progressivo, tra chi ha di più e chi ha di meno, ma anche in modo qualitativo: invertendo i rapporti che oggi in Italia vedono il lavoro e la produzione tassati molto di più della rendita e della finanza.

E proprio su questo tema scottante la politica poca coraggiosa dovrà dare una risposta, e non lo farà senza essere incalzata da una domanda più forte di equità e giustizia sociale.

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