Innovazione
Più che post-capitalismo, questo è iper-liberismo
Il libro Post-capitalism di Paul Mason uscirà in Italia solo nel 2016, ma il lungo estratto pubblicato sul Guardian (che potete trovare qui) – comparso come storia di copertina anche su Internazionale – basta per tenere in vita uno dei dibattiti più importanti di questi anni: come cambia il lavoro, nel suo complesso, in una società sempre più legata alla tecnologia, all’informazione, alla comunicazione.
In sintesi estrema, quanto scrive Mason si basa su tre pilastri: “1- Le tecnologie informatiche hanno ridotto il bisogno di lavoro, rendendo meno netto il confine tra lavoro e tempo libero e meno stringente il rapporto tra lavoro e salario (…); 2- L’informazione sta erodendo la capacità del mercato di determinare i prezzi in modo corretto – i mercati si basano sulla scarsità, mentre l’informazione è abbondante(…); 3- Stiamo assistendo a una crescita spontanea della produzione condivisa: nascono beni, servizi e organizzazioni che non rispondono più ai principi del mercato e della gerarchia manageriale”.
Secondo Mason, il risultato di questi tre fattori è che “la prossima ondata di automazione, attualmente ferma perché le nostre strutture non sono in grado di sopportarne le conseguenze, farà diminuire enormemente la quantità di lavoro necessaria non solo per la sussistenza, ma anche per garantire una vita dignitosa a tutti”.
E speriamo! Paul Mason fa però riferimento a uno scenario ancora là da venire, una visione auspicabile per il futuro (remoto?) che però si scontra con le tendenze per il futuro prossimo che possiamo osservare oggi. È il caso della sempre citata sharing economy, sotto il cui ombrello finiscono cose che di “sharing” hanno ben poco: AirBnb è davvero sharing economy o è semplicemente un servizio di noleggio di stanze in cui di “condivisione” c’è ben poco?
Non è che stiamo confondendo la sharing economy con la rental economy, come scrive Tiziano Bonini su Doppiozero citando Giorgos Kallis? “L’economia redditizia di Airbnb non è la stessa cosa della reale economia della condivisione rappresentata dai giardini urbani collettivi, banche del tempo, couchsurfing, dove gli utenti condividono realmente le loro risorse a fini di mutuo aiuto e soccorso, senza intermediazione monetaria e senza profitti. La rental economy è l’inevitabile versione mercificata della sharing economy. Affittare non è condividere: dovrebbe essere regolato e tassato”.
E cosa c’è di sharing economy in Uber, un servizio di noleggio auto con conducente i cui lavoratori sono sottoposti a una vigilanza strettissima senza nemmeno essere assunti? Hanno una gestione libera del loro tempo, ma lo pagano a carissimo prezzo. Una situazione in cui si stanno venendo a trovare, d’altra parte, tutti i lavoratori freelance, per le ragioni più diverse.
Personalmente, da freelance, non vorrei mai tornare al lavoro dipendente. Sono molto contento di aver barattato una certa sicurezza con una maggiore libertà (tanto più che oggi, di sicurezza, ce n’è pochissima, quindi tanto vale). E anche se sono diventato freelance giocoforza, dopo il fallimento del service editoriale per cui lavoravo, sono felice che le cose siano andate così.
Ma il fatto che in tanti siano soddisfatti di una posizione lavorativa che regala soddisfazioni personali e gestione libera del tempo (in cambio di minore sicurezza economica) non significa che sia qualcosa di positivo in sé.
E questo perché per tanti “millennials” diventare lavoratori autonomi non è stata una scelta, bensì un obbligo (se nessuno ti offre un lavoro, quel lavoro lo devi inventare); ma soprattutto perché la nuova tendenza che sempre più si osserva è quella del lavoro freelance a cottimo: del lavoro pagato in base ai risultati, quantificabili al millimetro, che si ottengono.
Una tendenza di cui ho scritto qui e che riguarda lavoratori freelance che accedono a piattaforme internet (YouTube, Blasting News, AdFly) in cui vengono pagati solo in base alla quantità di “click” o altro che riescono a generare; sotto una certa soglia, non prendono nulla.
Una meritocrazia totale (non ci sono più barriere d’accesso, tutti possono giocarsi la loro chance), ma spietata. Soprattutto, un meccanismo che ribalta la situazione: il rischio d’impresa è scaricato sulle spalle del lavoratore, che se ha “successo” guadagna, altrimenti non vede un euro; mentre l’imprenditore che ha costruito la piattaforma può usufruire di una flessibilità nelle uscite incredibile (meno il lavoratore genera click, meno pubblicità entra, meno guadagni ho, meno pago il lavoratore) e soprattutto – fatta eccezione per i costi fissi – direttamente proporzionale all’andamento della propria impresa.
Che è un po’ come se Marchionne pagasse gli operai Fca in maniera direttamente proporzionale a quante 500 e Jeep Renegade riesce a vendere. Sotto una certa soglia, nessun operaio viene pagato, non importa quante ore abbia lavorato. Sarebbe questo il post-capitalismo? Ricorda davvero, molto di più, il capitalismo spietato e deregolamentato che ha preceduto l’avvento dei sindacati e della socialdemocrazia.
L’unica tendenza contemporanea che fa davvero pensare al post-capitalismo è che alla soddisfazione nel possedere oggetti si sta sostituendo la soddisfazione nel possedere tempo. Come dice Sara Horovitz, “i millennials tendono a dare maggiore valore alle esperienze piuttosto che alle cose”.
D’altra parte, quella che sta crescendo è una generazione sempre più abituata al lavoro indipendente. I freelance sono un esercito in continua ascesa, ma viste le condizioni economiche a cui sono sottoposti (parliamo della fascia bassa, non dei grandi professionisti) è normale che diano valore alle esperienze, alle gratificazioni che un lavoro “free” (a volte anche nel senso di gratis) può offrire, e diano meno valore a ciò che non si possiede: il potere di comprare quello che si vuole.
Non voglio essere un disfattista, sono favorevole a modalità che riducano la schiavitù dell’ufficio, che abbattano le barriere d’accesso e che rendano possibile una vera meritocrazia, ma bisogna ricordare che tutto questo avviene a un prezzo molto alto. E va anche ricordato come il trattamento economico delle giovani partite Iva sia completamente diverso dalla “partita Iva” dell’immaginario collettivo. Parliamo di lavoratori che prendono stipendi in linea con quelli dei lavoratori dipendenti, ma senza tredicesima, senza ferie pagate, senza malattie, senza tutele di alcun tipo.
Il punto è che se la sharing economy è, nei suoi esempi glorificati, costituita da aziende che di sharing vero hanno ben poco; se l’essere freelance diventa un obbligo, più che una scelta; se il rischio d’impresa si scarica sulle spalle del lavoratore, forse prima di sognare un postcapitalismo che ancora non si vede, dovremmo concentrarci bene per capire che cosa sta succedendo nell’iperliberismo in cui siamo immersi oggi.
Secondo Paul Mason, il postcapitalismo “farà diminuire enormemente la quantità di lavoro necessaria non solo per la sussistenza, ma anche per garantire una vita dignitosa a tutti”; per il momento vedo eserciti di freelance che lavorano 14 ore al giorno – inventandosi di tutto – per mettere insieme uno stipendio.
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