Innovazione

Perché i tempi stanno cambiando – recensione

26 Dicembre 2015

Il titolo dell’ultimo libro scritto dal Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco prende spunto in modo quasi passionale dalla canzone che Bob Dylan  cantava negli anni ‘60 “The times they are a-changin”e allude ai due macrotemi affrontati nel libro: cosa ha modificato la crisi economica che ci siamo appena lasciati alle spalle e quale direzione dovremmo prendere, secondo l’autore, per impedire di rimanere bloccati nella palude.

“The times they are a-changin”

Nel primo capitolo del libro sono presi in esame i mutamenti della società occidentale negli ultimi secoli; anzitutto è indubbio che dalla prima rivoluzione industriale abbiamo assistito a un’epoca di enormi cambiamenti soprattutto dovuti al volano della tecnologia che, contrariamente alle teorie pessimistiche dell’epoca (vedi a titolo di esempio il testo di Thomas R. Malthus, “I saggi sul principio di popolazione”), l’uomo è riuscito a cavalcare ed ha potuto aumentare in maniera esponenziale non solo il benessere economico ma anche quello sociale.
Lo sviluppo economico dalla seconda metà del ‘700 non è stato però un processo lineare e ciò si è enfatizzato in particolare a seguito dello shock della crisi del 2008, da qui il reddito dei paesi avanzati è aumentato di poco o addirittura è diminuito come nel caso italiano e ben peggio si ritiene che la crisi abbia diminuito anche il tasso di crescita del prodotto potenziale a causa del protrarsi nel lungo periodo del forte tasso di disoccupazione e degli investimenti ridotti ed è alla luce di ciò che si teme il rischio di isteresi, fenomeno con cui abbiamo già avuto a che fare in Europa quando il tasso di disoccupazione è rimasto alto a seguito delle crisi petrolifere degli anni ’80.
Gli scenari che si prospettano sono ovviamente innumerevoli, tra i più affascinanti ve ne sono due in particolare, riportati nel libro.
Ricercatori come l’americano Larry Summers ripropongono la teoria del “Ristagno secolare” (cui lo stesso Visco non sembra dare molto credito) consistente in una riduzione del prezzo relativo dei beni capitali, causata dall’innovazione tecnologica  che contribuisce a sua volta a ridurre in termini di valore la spesa per investimenti.
La seconda teoria, sostenuta da un altro economista del Partito Democratico americano, Bob Gordon, prevede che la maggior parte delle innovazioni che generano rilevanti incrementi di produttività siano già state per la maggior parte inventate ed è quindi inevitabile tornare a tassi di crescita più moderati del passato.
C’è poi un’importante difformità tra la prima rivoluzione industriale e il progresso tecnologico digitale che stiamo vivendo tutt’oggi; nel primo caso il progresso tecnologico ha comportato un aumento e un miglioramento delle opportunità occupazionali oltre che di un importante mutamento delle condizioni di vita, mentre nei nostri giorni non vi è evidenza dello stesso fenomeno, tale progresso infatti presenta una importante capacità di sostituzione del fattore lavoro anche nei settori dove il contributo dell’uomo è parso sin qui determinante e porta a riprendere in considerazione il tema della celebre “disoccupazione tecnologica” introdotta nel 1930 da Keynes .

 

La finanza dopo la crisi

 

Anzitutto è importante sottolineare che la finanza, lo scambio di moneta oggi contro moneta domani, è un’attività troppo importante per la nostra società, ma certo i comportamenti scorretti, l’indulgenza nei confronti dei responsabili della crisi finanziaria e la generosità con cui sono state gestite le liquidazioni ai dirigenti delle istituzioni finanziarie in difficoltà legittimano il sentimento di rabbia e repulsione che in alcune realtà è sfociato in movimenti quali Occupy Wall Street e Indignados.
La crisi del 2008 ha scoperchiato il vaso di Pandora ed ha portato alla luce diversi aspetti problematici del nostro sistema finanziario da cui però possiamo ricavare due importanti lezioni lungimiranti quanto tardive.
In primis, è necessaria una regolamentazione veramente incisiva del sistema finanziario, a questo proposito sono già stati innalzati i requisiti patrimoniali minimi delle banche, è stato imposto un rapporto minimo obbligatorio tra capitale e attività nominali ed il Comitato di Basilea ha inoltre adottato standard internazioni per la liquidità delle banche in modo che queste siano in grado di fronteggiare shock di liquidità.
In secondo luogo si è evidenziata la necessità di stabilità finanziaria affinché vi sia stabilità dei prezzi ed è quindi più che mai necessaria una riforma del ruolo delle banche centrali le quali devono abbandonare la politica di “benevolo distacco” rispetto alla finanza e di conseguenza è indispensabile sviluppare un livello di vigilanza internazionale veramente solido pur sacrificando l’efficienza economica.

 

Le sfide dell’Unione Europea

L’Unione Europea ha tentato in questi anni di rispondere attraverso il rafforzamento delle regole di bilancio e l’introduzione di nuove procedure che permettano di controllare gli squilibri macroeconomici a due ordini di criticità fortemente correlate tra loro, quali la fragilità delle economie nazionali e l’autorità della moneta unica messa in discussione ma tali strumenti hanno subito sia l’assenza di un bilancio comune tra i paesi dell’UE, che pare tuttora lontano, sia le incertezze dei mercati in particolare.
Gli obiettivi delle politiche che hanno guidato la scelta degli strumenti di cui sopra sono quelli di rendere maggiormente uniformi le condizioni di mercato per i paesi, contrastare la flessione della domanda e mantenere la stabilità dei prezzi.
Inoltre, le finanze pubbliche di alcuni paesi si presentano ancora oggi fragili e ciò è causato soprattutto da politiche di bilancio da troppo tempo imprudenti nonché dalla sottovalutazione di protratte perdite di competitività e tali paesi non possono, rimarca l’autore, fare affidamento solo sulle politiche monetarie della UE ma hanno l’onere di adottare le misure necessarie per ristabilire le condizioni che permettano un ritorno a tassi di crescita stabile ed equilibrata.

Italia: Problemi e soluzioni

Anzitutto, come è risaputo, la competitività economica del nostro paese soffre della mancanza di riforme strutturali da più di un ventennio e ciò ha amplificato gli effetti delle crisi finanziaria e economica.
Una delle caratteristiche dell’apparato produttivo italiano è che esso è tutt’oggi concentrato sui settori manifatturiero e dei servizi nei quali vi è un basso livello di know-how e di tecnologie utilizzate e ciò ha fatto si che l’Italia soffra la concorrenza dei paesi emergenti più degli altri Stati europei ed ha causato una caduta dell’occupazione nonché il crollo della produzione.
Tra le maggiori variabili alla base della crisi dell’industria italiana vi è la dimensione delle imprese, nel nostro paese infatti il tessuto produttivo è costituito soprattutto da imprese di piccole dimensioni le quali devono sostenere costi fissi elevati e producono uno scarso valore aggiunto, detto in altri termini, uno dei problemi maggiori della nostra realtà è quindi rappresentato dall’assenza di aziende di medie-grandi dimensioni che permettano la creazione di reti di subfornitura delle imprese di piccole dimensioni e costituire così un elemento di flessibilità in un mercato ancorato agli anni ’80.
Cosa dovrebbero fare lo Stato e gli enti locali per rispondere a tali problemi?
Le azioni da seguire sarebbero tante, è risaputo che l’Italia stia pagando un ampio gap di capitale umano rispetto non solo agli altri paesi sviluppati ma soprattutto rispetto ai paesi in via di sviluppo ed è perciò necessario investire su istruzione e formazione.
Poi è necessario che i nostri imprenditori recuperino il divario tecnologico e questo è possibile disincentivando le rendite e specularmente incentivando le imprese a investire nell’innovazione dei processi di produzione e nei prodotti, è quindi necessario avviare anche nel nostro paese un processo di riforma del sistema dei finanziamenti alle imprese
Ultimo ma non ultimo, devono essere fatti investimenti pubblici in infrastrutture materiali e immateriali in quanto anche su questo tema il nostro paese deve recuperare un notevole divario rispetto agli altri Stati sviluppati.

Il libro si propone di trattare numerosi temi orbitanti nella sfera finanziaria affrontando dapprima la storia economica occidentale, poi il tema della finanza nel periodo post-crisi, la situazione dell’Unione Europea e dell’Italia, è perciò inevitabile che risulti spesso superficiale. Lo scopo nobile del libro è quello di fare il punto sulla situazione economica in essere pur sacrificando il livello degli approfondimenti; a titolo di esempio, l’elenco delle necessità che l’Italia presenta è ormai diventato un cliché e dal Governatore della Banca d’Italia ci si può attendere che presenti almeno un suo punto di vista sugli indirizzi scolastici da incentivare e su cui porre maggior attenzione (per non parlare della situazione delle università), un altro tema sensibile è la questione meridionale, oggetto di attenzioni da parte di tutti i governi dal dopoguerra ad oggi ed ancora irrisolta, la quale non è stata sfiorata per quanto sia tra i  principali problemi della nostra economia.
Al di là di tali scelte, concludendo, il libro manca di coraggio, non vi sono proposte concrete per il rilancio italiano né critiche costruttive,sarebbe stato apprezzabile aver letto tali opinioni da parte del rappresentante di un istituto così importante.

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