Innovazione

Paola Parigi: il marketing serve anche agli avvocati

26 Aprile 2021

Non c’è discorso legato all’attualità, di questi tempi, che non preveda un ampio uso dell’espressione “Transizione”.

Che si tratti di quella digitale, ecologica, energetica o economica, un dato comune c’è: i principali settori della nostra economia si trovano in una delicatissima fase di passaggio, di evoluzione, pronti ad abbracciare modelli diversi rispetto a quelli adottati fino al più recente passato.

Su  gliStatiGenerali ho già avuto modo di esprimermi sulla necessità – ormai indifferibile – che anche la professione forense affronti senza remore  un percorso di modernizzazione delle proprie dinamiche.

In questo contesto, ho pensato che potesse essere d’interesse intervistare Paola Parigi che, su questi temi, è perfino facile considerare come una delle voci più competenti cui prestare attenzione.

Paola, partner e fondatrice di Paris&Bold, ha dedicato la propria vita professionale ai temi dell’organizzazione e del marketing degli studi legali.

Nel ringraziarla per la cortesia e generosità che mi ha riservato accettando questo invito, passo alla prima domanda:

La pandemia, ancora in corso, ci ha insegnato che i piani a lungo periodo non sono più attuabili. Serve una  visione strategica con un orizzonte temporale ridotto. Come cambiano le strategie di marketing?

«Per come conosco gli avvocati, sono pochissimi quelli che si applicano nel progettare strategie, tantomeno di lungo periodo. Credo che gli unici piani sconvolti dalla emergenza pandemica riguardino un numero marginale di studi che avevano, sfortunatamente per loro, deciso di fare investimenti immobiliari nel periodo immediatamente precedente l’insorgere della crisi.

I contraccolpi più significativi sono stati avvertiti dagli studi grandi o grandissimi che hanno operato una riduzione del personale legale e dovuto affrontare negoziazioni sugli asset immobiliari e le esposizioni creditorie.

Fusioni, spin-off e mutamenti di scenario sono stati assolutamente in numero e forma fisiologica per questo settore per tutto lo scorso anno. Se c’è stato un incremento della mobilità, va ascritto ad una certa pulsione ad approfittare dell’emergenza per realizzare un cambiamento atteso ma che non si aveva il coraggio di affrontare o, talvolta, per tagliare rami secchi. Con l’occasione i più audaci hanno puntato sulla crescita e intercettato talenti che in altri tempi non sarebbero stati disponibili.

Paradossalmente la pandemia ha costretto la maggioranza degli studi a ripensare la propria attività e a rinnovare forzosamente le modalità di lavoro, di approccio alla clientela e di rapporti con i clienti.

Questa spinta, decisamente inaspettata, ha prodotto però dei cambiamenti positivi, ha impresso una accelerazione all’innovazione nei sistemi informatici nella sicurezza per la necessità di passare al lavoro in remoto, ha costretto molti a prendere atto di aver bisogno di una adeguata strategia di comunicazione online, pena la graduale scomparsa dello studio agli occhi dei clienti.

Con la pandemia questo è certo, la comunicazione si è spostata pressoché completamente sul web, ora più che mai non esserci equivale a non esistere.

Da quel che ho potuto osservare, la maggior parte degli avvocati ha espresso una buona dose di flessibilità nell’affrontare i cambiamenti e una predisposizoine alla ripresa, dopo un primo momento di smarrimento, totalmente comprensibile e condivisibile.

La flessibilità secondo me è una dote presente nel bagaglio del professionista che per sua natura vive senza certezze e, per così dire, sviluppa anticorpi che lo aiutano ad elaborare risposte rapide ai cambiamenti di scenario».

Negli ultimi anni ci si è concentrati più sugli strumenti (sito internet, pagine social,…) che sulla web reputation, ma oggi, anche per uno studio legale, è indispensabile avere una buona reputazione sul web. É d’accordo?

«Sono d’accordo che la web reputation sia essenziale e questo accade non da oggi. Come ho detto, non essere presente e visibile online equivale oggi a non esistere, professionalmente parlando. Come la reputazione nel mondo “reale”, anche quella sulla rete, è essenziale al successo professionale e si conquista con fatica e nel tempo, certamente non si improvvisa.

L’equivoco che molti professionisti commettono sta nel non comprendere il peso di due fattori:
– il primo, che ognuno ha una web reputation, che gli piaccia o no;
– il secondo, che sito e social non sono strumenti intercambiabili per gestirla, ma hanno ruoli diversi che vanno maneggiati consapevolmente.

Per essere più chiara, ognuno di noi, se cerca il proprio nome su Google trova qualcosa.
Quello che trova, compresa la gerarchia nella quale le informazioni sono organizzate, è lo specchio della sua web reputation. Poco importa che abbia molti follower su Instagram o su Facebook o su LinkedIn. Google è il signore e padrone dell’aggregazione dei dati e i social lo interessano solo in parte.

Ignorarlo e non preoccuparsene, lasciare che l’algoritmo assembli i contenuti secondo le sue logiche, è un atteggiamento che non paga, così come non paga ignorare il sito e sopravvalutare i Social.

A meno che non parliamo di politici (i cui tweet e post vengono rimbalzati fuori dalla rete dai media mainstream), costruire, lentamente, e curare, giornalmente, la propria presenza su internet invece è l’unica cosa che conta per non essere in balia dell’algoritmo (anzi degli algoritmi), e prendersi cura della propria web reputation.

La rete e gli strumenti che vi si possono utilizzare, costituiscono un mezzo molto potente ed efficace.

Alla costruzione della web reputation infatti concorre la qualità dei contenuti che riguardano il professionista, ma anche la loro coerenza e la loro densità. Oggi è possibile per tutti scrivere, registrare video, podcast e tenere conferenze con budget risibili.

La cosa bella è che un post sul proprio sito può, se ben utilizzato, avere lo stesso peso, in termini reputazionali, di quel che aveva una intervista su un giornale cartaceo di dieci anni fa.

L’unico problema è che essere “editori di sé stessi” funziona come un lavoro che si somma a quello principale dello studio professionale. Non è una perdita di tempo ma ne consuma parecchio e soprattutto non può essere improvvisato».

Il branding, con annesse operazioni di re-branding, si sta affacciando con sempre maggiore frequenza nel mondo legale italiano. Pensa che i brand legal siano il futuro?

«Se dobbiamo riferirci agli Stati Uniti e al Regno Unito come precursori delle tendenze del nostro Paese quel che conta più di tutto è la reputazione dei soci. Il vero capitale è quello umano, ma la forza di un brand sta nella costruzione della percezione di qualità del lavoro. Nel mondo professionale un brand incarna uno stile di lavoro e una esperienza collettiva. I soci di peso la costruiscono e talvolta, andandosene, portano con sé i portafogli, ma un brand che ha associato il proprio nome alla qualità del servizio, resiste e può essere competitivo.

In questi ultimi anni abbiamo assistito al fenomeno dei grandi studi che hanno aperto uffici al sud e nella provincia. Hanno proceduto inglobando studi legali affermati per acquisirne il posizionamento, i soci di peso e il portafoglio di clientela. In cambio hanno fornito il “brand” che in parole povere significa più sicurezza, lavoro garantito (o quasi), dalla circolazione interna al network (cross selling e re-selling), disponibilità finanziaria per investimenti in innovazione dei processi e scouting di talenti con i quali aggredire il mercato, che come sempre fa la differenza.

Un gruppo di avvocati che voglia affermarsi deve investire nella creazione di un nome efficace sotto il quale riconoscersi per una serie di valori, realizzando così un brand  vincente dal punto di vista della sua percezione, ma l’operazione ha le gambe corte se il primo di quei valori non è la qualità del lavoro e il secondo la lealtà tra i soci.

In Italia, a contrastare la nascita e la crescita di un modello efficente di grande studio c’è un annoso problema che nessuno ancora si è premurato di risolvere, tantomeno la classe dirigente forense: quello degli avvocati dipendenti.

Fino a che a 246 mila iscritti all’albo corrisponderanno 246 mila partite IVA, il gioco continuerà ad essere il tutti contro tutti e non si avranno benefici dall’effetto aggregatore di imprese legali che rischiano e di bravi gregari che si riconoscono nel loro nome e nella loro scala di valori.

Gli avvocati non si preoccupano abbastanza di quale sia l’effetto sul mercato di una organizzazione che si regge sui rapporti di forza e non su di un organigramma e una contrattualizzazione del lavoro e della concorrenza, interna ed esterna agli studi e spesso pagano lo scotto di questa miopia, da una parte investendo a fondo perduto nella formazione di potenziali concorrenti e dall’altra pensando che raggiungere il titolo sia sufficiente ad aprire uno studio legale».

Perché ha scelto di dedicarsi unicamente al marketing degli studi legali e/o professionali?

«Sono un avvocato, questa è la prima ragione, ho esercitato per sette anni dopo la pratica nella mia città natale, Ravenna. Ho sempre coltivato, oltre alla scrittura e all’informatica, la passione per la storia dell’avvocatura e il superamento delle storture che quella italiana ha ereditato dal ventennio fascista. Considero questa eredità una zavorra per la crescita e mi ha sempre interessato dare il mio contributo e partecipare al suo superamento.

Parlo della parità tra i generi (la battaglia condotta dalle donne per diventare avvocate), dell’avvocato dipendente,  delle società di capitali tra avvocati (vietate fino al  2017), e di molto altro.

Da quando internet è entrato così prepotentemente nelle nostre vite, anche professionali, ho indagato anche gli aspetti dirompenti di questo incontro scrivendone e organizzando eventi. Su quella via ho conosciuto un socio di quello che allora era lo studio più grande del mondo che cercava un business development and communication manager per gli uffici italiani. Così tutto è cominciato, il trasferimento a Milano, i continui viaggi da e per il quartier generale di Londra e gli altri uffici sparsi per il mondo. È stata un’esperienza entusiasmante.

Quattro anni dopo ho potuto scegliere se tornare alla professione o dedicarmi come free lance al marketing. Il Sole 24 Ore mi ha affidato una rubrica sulla gestione dello studio professionale e cominciando dal mio primo libro e dal mio primo sito ho costruito la mia carriera di consulente. Il primo cliente è arrivato con la presentazione del mio libro sul marketing legale ad un evento del Rotary di Milano».

Quali sono le principali aree dove interviene quando riceve il mandato di curare il marketing di uno studio legale?

«Nel 50% dei casi vengo chiamata per la comunicazione (immagine, sito e gestione delle relazioni con i media e della comunicazione), attività che condivido con il mio gruppo, formato da grafici, tecnici ed esperti di comunicazione; per l’altra metà vengo incaricata di seguire la nascita o la riorganizzazione di studi anche in forma societaria, l’uscita di avvocati che creano spin-off, la ricerca di team o studi con cui costruire alleanze, in tutta Italia e anche internazionali, la scrittura dei piani di retribuzione e carriera per studi medio grandi che, appunto, si scontrano con la mancanza di modelli contrattuali per disciplinare i rapporti al proprio interno.

La strategia di marketing vera e propria è normalmente preliminare a queste azioni. Mi occupo delle analisi della clientela e del mercato e contribuisco alla pianificazione strategica che spesso si concentra sulla comunicazione, su progetti di specializzazione e cura della clientela e sulle pubbliche relazioni e networking».

Cosa pensa dell’utilizzo dei social network per uno studio legale?

«I Social Network sono strumenti molto utili per creare nuove relazioni che da virtuali diventano reali e aiutano a rendere visibile un avvocato e il suo studio.

Ogni social ha un suo pubblico, un suo linguaggio e le sue regole (di nuovo, il suo algoritmo), non vanno quindi usati in maniera improvvisata, promiscua e discontinua.

La funzione che li rende insostituibili però è quella di portare visite al sito che è il vero nucleo dell’attività editoriale dello studio e la vera fucina della web reputation, o almeno lo sarà finché Google lo vorrà».

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