Innovazione
Non è la Silicon Valley, ma… viaggio nell’Europa che sforna startup
Il canto struggente di Amália Rodrigues, l’Alma do Fado; la bellezza di stradine soleggiate e sonnacchiose; il sapore di un pastel de nata. Ecco cos’è Lisbona per molti italiani, che della capitale portoghese conoscono le suggestioni dell’Alfama, la quiete possente del Tago, o la grandiosità di Praça do Comércio. In realtà Lisbona, estrema metropoli occidentale di un’Europa accusata di essere troppo rigida e poco imprenditoriale, sta diventando un piccolo eldorado per gli startupper. Pochi giorni fa, per esempio, si è tenuta qui l’edizione 2017 del Web Summit, una delle conferenze tecnologiche più importanti del mondo. È il secondo anno di fila che il Web Summit ha luogo a Lisbona, e non è un caso. Per dirla come certi media americani, “una volta il Portogallo varava navi, ora vara startup”.
In tutto il paese iberico, da Porto a Faro, è un fiorire di incubatori, acceleratori e programmi di innovazione. Presto a Lisbona sarà completato l’Hub Criativo Beato, progettato per essere tre volte più grande del celebre Station F di Parigi. Ma già oggi sono all’opera realtà come Startup Lisboa e Fábrica de Startups. O Beta-i, fondato nel 2010 per implementare programmi di accelerazione e innovazione.
«In questi anni abbiamo accelerato più di 600 startup, che hanno raccolto investimenti per oltre 60 milioni di euro. Fra le startup che hanno concluso con successo il nostro programma, tre sono a Y Combinator e sette a Seedcamp – dice a Gli Stati Generali Pedro Rocha Vieira, CEO e co-fondatore di Beta-i, tra gli acceleratori più importanti d’Europa –. Collaboriamo con vari acceleratori focalizzati su determinati settori. Ad esempio Protechting, che opera nel campo assicurativo; Smart Open Lisboa, del ramo smart city; SIBSPayForward, per soluzioni di pagamento; e TechCare, il programma di startup di Novartis, attivo nel settore medico».
Beta-i ha sostenuto, ad esempio, Uniplaces, piattaforma che aiuta gli studenti a trovare un alloggio in diverse città universitarie europee, da Londra a Barcellona, da Milano a Berlino. Due anni fa la startup ha ricevuto un investimento da 24 milioni di dollari. Degna di nota è pure LineHealth, startup medica che ha ricevuto finanziamenti anche dal colosso farmaceutico Bayer.
Il caso portoghese è un esempio del consolidarsi di una “via europea all’innovazione”. Fatta non tanto di grandissime aziende (come la Microsoft a Seattle, o la Fairchild in California), VC in abbondanza e un mercato gigantesco su cui puntare, ma di acceleratori, incubatori, parchi tecnologici, università piccole e grandi. Insomma: un mix, molto europeo, di iniziative top down e bottom up, con un forte (e dichiarato) ruolo del pubblico. Spicca, in particolare, proprio il ruolo degli acceleratori. A Gli Stati Generali Paolo Lombardi, esperto di startup e mentor, spiega: «Ormai sono passati anni da quando è stato aperto il primo acceleratore in Europa, e si sta iniziando a prendere consapevolezza dell’importanza e anche dei limiti dello strumento. Gli acceleratori e incubatori come iniziative corporate per l’open innovation, o come iniziative pubbliche per la nascita di startup, probabilmente avranno un ruolo molto importante nei prossimi dieci, dodici anni almeno».
Se il Portogallo corre, la Spagna non sta certo ferma. Madrid e Barcellona, per esempio, sono da anni tra i principali poli del VC nell’Europa meridionale, più di Marsiglia, Roma, Napoli o Siviglia. E tanto a Madrid che a Barcellona ci sono realtà interessanti come Campus Madrid, Conector, GameBCN, e Incubio. Ma pure in Spagna, come in Portogallo, gli acceleratori non sono confinati nelle grandi città. È il caso di Endurance Lab, acceleratore dedicato al mondo dei cavalli e dell’equitazione con sede a Vic, in Catalogna.
O di Orizont, acceleratore di startup agroalimentari fondato dalla Sodena (società di sviluppo della Navarra). A Gli Stati Generali il direttore della divisione investimenti di Sodena, Alberto Clerigué, dice: «Orizont ha come obiettivo quello di diventare un punto di riferimento per il settore agroalimentare a livello nazionale e internazionale. Ecco perché collaboriamo con centri di ricerca e tecnologici, università e grandi aziende spagnole e straniere».
Non è difficile capire come mai la Spagna, nota per la sua agricoltura e per prodotti d’eccellenza come il Pata Negra, l’olio di Jaén e il Rioja, punti sull’innovazione nel settore agroalimentare. «Le sfide in quest’ambito sono molte e complesse – sottolinea Clerigué –. Basti pensare che, secondo le previsioni demografiche, nel 2050 il mondo potrebbe essere popolato da 9 miliardi e mezzo di persone, e avranno tutte esigenze alimentari da soddisfare. Per noi è chiaro che in questo ambito l’innovazione gioca un ruolo essenziale. La tecnologia è, senza alcun dubbio, lo strumento fondamentale per pensare il futuro dell’agroalimentare. Un settore che tra l’altro è il primo dell’economia spagnola, con oltre 2,4 milioni di occupati».
Tra le startup accelerate da Orizont c’è Nutrición 3G, azienda della nutrigenomica che ha sviluppato un test di analisi genetica per fare raccomandazioni alimentari personalizzate, e prevenire patologie sempre più comuni come obesità, diabete, ipertensione e degenerazione maculare. O Brioagro, che ha creato un sistema di monitoraggio per raccogliere informazioni in tempo reale utili agli agricoltori.
Franza o Spagna purché se… innovi. Parigi è la seconda piazza di investimenti VC in Europa dopo Londra, ed è la sede di molti acceleratori e incubatori. Ad esempio il giovanissimo, ma già famoso, Station F, subito gratificato da una visita del neo-eletto presidente Macron (che ha persino improvvisato un mini-pitch per il campus). Sempre a Parigi operano realtà di pregio come Agoranov, acceleratore pubblico fondato dall’Università Pierre e Marie Curie, dall’Université Paris-Dauphine, dall’École normale supérieure e da ParisTech.
Ma non è la Francia la regina dell’innovazione europea. Il primato va alla confinante Svizzera. Dello stato alpino, considerato il più innovativo al mondo secondo il Global Innovation Index 2017, Gli Stati Generali si sono già occupati di recente. In ogni caso, anche in Svizzera non si scherza quanto ad incubatori, campus e acceleratori. Antonio Gambardella è direttore di Fongit, la Fondazione di Ginevra per l’Innovazione Tecnologica, e racconta: «Fongit è stato il primo incubatore di startup creato in Svizzera: è stato fondato nel 1991 con capitali privati allo scopo di sostenere il processo di innovazione. Lo Stato è intervenuto in seguito. Oggi è una fondazione privata senza scopo di lucro, riconosciuta come di pubblica utilità».
Fongit attualmente sostiene oltre 55 aziende nelle ICT, nell’Industria 4.0, nel cleantech e nel medtech, per un totale di oltre 250 posti di lavoro. «Negli ultimi anni le startup incubate da noi hanno ottenuto investimenti per oltre 150 milioni di franchi». Un dato assai positivo, specialmente in un paese più avverso al rischio di quanto non si pensi. Basti pensare che Zurigo, pur essendo una delle piazze finanziarie più importanti del mondo, non figura nella Top 20 dei maggiori centri VC d’Europa elaborata dal Martin Prosperity Institute. E Ginevra è al diciassettesimo posto, sotto Bruxelles.
E poi c’è la Germania, la prima economia continentale. Berlino, si sa, è considerata la capitale europea delle startup. Merito del vasto patrimonio edilizio nell’ex Berlino est, che permette ai giovani imprenditori di affittare spazi a costi (relativamente) bassi; delle infrastrutture di alto livello, e della presenza di grandi aziende come Rocket Internet tra i protagonisti della scena digitale europea. Nonostante sia lontana dai livelli di Londra e Parigi, Berlino è uno dei poli dei VC europei, più di Monaco e Francoforte sul Meno (che però vedrà il suo ruolo crescere, con il trasloco di numerose banche dalla Londra post-Brexit).
Acceleratori e incubatori sono di casa a Berlino. Ma anche realtà più periferiche si difendono bene. È il caso della Sassonia, e del suo capoluogo Dresda. A differenza di Berlino, Monaco, Francoforte o anche Karlsruhe, la Sassonia è un land dell’ex DDR, e i quasi cinquant’anni di regime socialista non hanno certo giovato al suo tessuto economico. Ma l’alta concentrazione di università e centri di ricerca hanno trasformato Dresda in uno dei poli tecno-scientifici della Germania unificata. E da qualche anno l’ecosistema di Dresda sta cambiando pelle. Merito anche di realtà come HighTech Startbahn.
«Nel 2012 abbiamo lanciato l’acceleratore. Gli obiettivi sono due: sostenere il trasferimento tecnologico, e aiutare le startup a creare il loro business model, trovare clienti e investimenti, aggredire il mercato – spiega Bettina Voßberg, CEO e fondatrice di HighTech Startbahn –. Ci focalizziamo sul B2B, e siamo specializzati nell’high-tech: dalle micro- e nanotecnologie ai trasporti e alla logistica, passando per le tecnologie per l’energia e l’ambiente».
Un po’ più a nord (un bel po’ più a nord: quasi 600 chilometri) c’è Copenaghen, capitale della Danimarca e fulcro della Öresund Region, l’area metropolitana transfrontaliera che si estende tra la Selandia danese e la Scania svedese. Qui c’è la Medicon Valley, uno dei maggiori cluster biotech e medtech del mondo. Merito della presenza di università, laboratori di multinazionali farmaceutiche, PMI, startup, incubatori e acceleratori. Come il danese Accelerace, fondato nel 2008. «Attiriamo startup da tutta Europa – dice Peter Torstensen, CEO dell’acceleratore –. Riceviamo circa 2500 candidature all’anno, e ne selezioniamo di solito una cinquantina, poi le acceleriamo attraverso un programma flessibile che va dai 3 ai 12 mesi, e le aiutiamo a trovare il loro primo lead investor (investitore principale)».
L’acceleratore è focalizzato su cinque settori: biotech, medtech, cleantech, ICT e foodtech. «Finora abbiamo lavorato con 523 startup. L’88% di esse sopravvive a 3 anni dalla fine del programma. Di queste circa il 65% ottiene investimenti anche dopo il programma e, in media, sono investimenti intorno a 1,2 milioni di euro». Tra queste ci sono TrustPilot, un’azienda che attualmente impiega circa 500 persone, e Aquaporin, che ha creato una tecnologia per trasformare l’acqua salata in potabile.
Nella Svezia tecnologica e risk-friendly, patria di aziende ad alta intensità innovativa quali Spotify e Skype, la musica è altrettanto interessante. Nel sud di questo paese vasto e lungo ci si può imbattere in acceleratori come SoPact, fondato nel 2016 nella graziosa cittadina di Helsingborg, non lontana da Malmö, metropoli post-industriale che con la danese Copenaghen è il motore economico e tecnologico della Öresund Region.
«È un’iniziativa pubblica, la nostra – dice Sofia Rydh di SoPact –. Hanno fondato il progetto l’Università di Lund, il comune di Helsingborg e l’Agenzia svedese per la crescita economica e regionale. Il nostro obiettivo per il biennio 2016-2018 è accelerare 42 aziende con sede in Scania, startup o imprenditori impegnati a rispondere alle odierne sfide sociali, culturali e ambientali». Sempre in Svezia, ma molto più a nord, c’è l’Arctic Business Incubator, che ha le sue sedi in città dell’estremo settentrione svedese come Luleå, Skellefteå, Kiruna e Piteå.
«L’Arctic Business Incubator è stato fondato nel 2005, e tra i suoi soci ha l’Università tecnologica di Luleå – spiega l’AD Jens Lundström – Siamo l’incubatore più a nord della Svezia. Ogni anno incontriamo oltre 250 imprenditori, di solito provenienti dall’Università, da centri di ricerca o da spin-out di aziende già esistenti, ma anche individui, e selezioniamo i migliori dieci per il nostro incubatore. Lavoriamo con idee di ogni settore, purché soddisfino i nostri criteri. In ogni caso siamo specializzati in alcuni settori: spaziale, metallurgico, cleantech e gaming».
In effetti la regione ha una solida tradizione mineraria, e grazie alla sua particolare posizione geografica ospita l’Esrange Space Center, un centro di ricerca e lancio di razzi della Swedish Space Corporation. Eppure tra le startup di maggior successo dell’incubatore c’è BehavioSec, azienda di fintech che utilizza le biometriche comportamentali per garantire la sicurezza delle transazioni. Come racconta l’azienda nel suo sito, la DARPA ha finanziato una parte del suo lavoro: l’ennesima prova, se mai ve ne fosse bisogno, della capacità europea di innovare a livelli quasi futuristici.
Acceleratori e incubatori giocano un ruolo chiave. Certo, c’è ancora molto da fare. Specie per quanto riguarda i capitali di rischio, davvero troppo pochi in un continente con oltre mezzo miliardo di consumatori e centinaia di migliaia di startup. Andrea Bonaccorsi, professore ordinario della Scuola di ingegneria dell’università di Pisa e già membro del gruppo di esperti dell’UE Research, Innovation and Science Policy (RISE), spiega: «Purtroppo in Europa le opportunità di investimento sono minori, per due ragioni: la prima è che i mercati nazionali sono ancora frammentati, di fatto non c’è ancora un mercato unico, specie nei servizi. Si pensi alle innovazioni nel settore della salute, ad esempio la digitalizzazione dei servizi sanitari dal lato dei pazienti; ci sono infiniti mercati domestici, ciascuno con i suoi standard, le sue procedure di acquisto… Le startup nascono già con un handicap, l’investitore sa che quando scalano da un paese all’altro va messo nel conto un aggravio dei costi nonché un potenziale rischio di fallimento».
L’altro problema, continua il docente, è la sfida dell’exit. «In Europa il mercato delle società non quotate è ancora frammentato. Si è fatto qualcosa con il mercato STAR, dove si vendono le startup di successo, ma si tratta di un mercato molto piccolo rispetto a quanto si ha negli Stati Uniti. La frammentazione ancora si paga». Fondamentale, per Bonaccorsi, è favorire gli investimenti in fase early e seed, perché in questo modo i VC sono più motivati in seguito a sostenere l’azienda. «In questo gli acceleratori e incubatori attivi in tutta Europa possono giocare un ruolo importante, ma con un cambio di modello, specie per gli incubatori. È necessario accorciare i tempi, accelerare l’arrivo sul mercato anche con i cosiddetti pretotipi, cioè prototipi non perfettamente funzionanti, ed elaborare subito un piano di espansione internazionale». Insomma, una piccola iniezione di cultura californiana (più lanci di beta, maggior velocità, fail fast fail often, un approccio più dirompente, think global) non guasterebbe a un Vecchio continente dal grande potenziale.
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