Innovazione

Neurodiritti, una impellente esigenza di tutela

19 Maggio 2021

Attraverso alcuni articoli, pubblicati a cavallo tra il 2015 e il 2017, il giurista argentino Roberto Adorno ha coniato l’espressione “neurodiritti”, allo scopo di definire una categoria emergente di diritti umani attinenti alla sfera mentale e neurocognitiva.

Il ragionamento è semplice e si basa su questi assunti: la tecnologia ha (in verità già da tempo) sviluppato diverse neurotecnologie e sofisticate interfacce cervello-computer (brain-computer interfaces) potenzialmente in grado di condizionare – sensibilmente – il pensiero e l’agire umano; esiste, quindi, la necessità di proteggere l’individuo dal pericolo di un uso sbagliato di queste tecniche e soddisfare questa esigenza di tutela spetta alla sfera del diritto.

Per il diritto, quindi, la prima sfida è quella che alcuni commentatori definiscono privacy mentale.

Un assetto normativo che dovrebbe consentire agli individui di mettere al sicuro le proprie informazioni neurali da accessi e controlli non autorizzati, specialmente dalle informazioni elaborate sotto la soglia della percezione cosciente.

La crescente disponibilità di archivi di dati neurali giustifica, sempre più di frequente, l’elaborazione di algoritmi funzionali alla creazione di modelli predittivi in grado di intercettare le preferenze degli individui ed il loro comportamento.

Siamo talmente abituati a porci simili problemi solo dentro le sale cinematografiche che corriamo il rischio di non capire che la fantascienza è ormai vicina alla realtà e che potremmo, tra non molto, essere sottoposti a qualcosa di non troppo diverso dal programma di “rieducazione” che il protagonista di Arancia Meccanica subiva nel tentativo di “normalizzarne” le condotte.

Che intorno al trattamento dei dati personali ruoti un mercato sempre più famelico è, ovviamente, circostanza nota.

The Great Hack, un documentario di Jehane Noujaim e Karin Amer, prodotto da Netflix, prende spunto dallo scandalo Cambridge Analytica e disegna un quadro sul quale è senz’altro opportuno riflettere.

Brittany Kaiser, ex dipendente di Cambridge Analytica, dichiarò:

“Ricordate quei quiz per creare modelli di personalità degli elettori? […] Il grosso delle risorse era per quelli a cui pensavamo di poter far cambiare idea. Li chiamavamo i persuadibili. […] Abbiamo progettato contenuti personalizzati per colpire quegli individui […] li bombardavamo di video, articoli, immagini finché non vedevano il mondo come lo volevamo noi.”

Secondo Kaiser, in sostanza, Cambridge Analytica avrebbe utilizzato i dati personali degli utenti per interferire con il processo democratico minando al nucleo morale stesso del sistema politico: la libertà e l’autonomia dell’individuo di decidere.

Solo un primo esempio.

Era il 2019 quando Privacy International pubblicò uno studio che dimostrava che all’incirca 136 siti dedicati alla depressione, in Francia, Gran Bretagna e Germania, condivideva i dati dei propri utenti con inserzionisti, colossi hi-tech e data broker, mentre perfino i risultati dei test online per accertare lo stato di depressione venivano trasferiti a terze parti, per farne una ricerca di mercato.

Solo un secondo esempio, tra i tanti che si potrebbero citare.

Oggi esistono perfino auricolari EEG che consentono, attraverso l’interazione con le onde cerebrali, di disegnare con il pensiero, di monitorare lo stato di veglia o di spostare oggetti senza muovere un dito.

La macchina interagisce con il nostro cervello, ma fino a che punto si limiterà a recepire indicazioni e quando, invece, comincerà ad impartirne?

Neurodiritti, quindi.

Parlarne e ipotizzarne forme di tutela non è più fantascienza.

Pasquale Stanzione, Presidente del Garante per la protezione dei dati personali, ne ha discusso attraverso le colonne del Corriere della Sera il 26 gennaio scorso.

In quell’occasione, la stessa Autorità ha preso atto di quanto l’espressione “brain reading” stia diventando di uso comune. Sono allo studio sofisticati progetti per l’installazione, nel cervello, di chip che consentano di contenere gli effetti di alcune patologie neurodegenerative e permettano, contestualmente, di interagire con i ricordi, salvandoli, amplificandoli o cancellandoli selettivamente.

La risonanza magnetica funzionale è già in grado di decodificare diversi tipi di segnali cerebrali, tra non molto potrà leggere i pensieri ed influenzare lo stato mentale ed il comportamento.

Dietro la promessa di sviluppo, inutile negarlo, si respira qualcosa di inquietante, da mettere a fuoco, da regolamentare, probabilmente da contenere.

Ogni volta che la scienza compie un salto in avanti, etica e diritto sono costrette ad inseguire e a fornire risposte adeguate.

L’analisi del Garante, da questo punto di vista, è senz’altro lucida:

“Siamo di fronte a una nuova antropologia, che esige una più effettiva difesa della dignità dal rischio di un riduzionismo (non semplicemente biologico, ma) neurologico, capace di annullare conquiste di libertà ormai talmente consolidate da essere ritenute di fatto acquisite.

Emerge dunque l’esigenza di garantire, anche rispetto a tale nuova tipologia di rischi, quel foro interno dalla cui libera formazione dipende ogni altra libertà, attraverso neurodiritti volti a coniugare l’innovazione e la dignità della persona. Il rischio, altrimenti, è che innovazioni scientifiche potenzialmente preziose per la cura di stati neurodegenerativi divengano lo strumento per fare dell’uomo una non-persona, da addestrare o classificare, normalizzare o escludere.”

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