Innovazione

Lo stereoscopio che mostra il futuro

20 Marzo 2016

Scritto con Massimo Temporelli, direttore di The Fab Lab: Make in Milano 

 

Questa è una storia che merita di essere raccontata in tempi di disruption e innovazione. Lo merita perché, al di là delle tendenze e della retorica ultra-ottimista che ispira i giganti hi-tech della Silicon Valley, c’è un’altra retorica, altrettanto forte, che ad essa si oppone sulla base di un pessimismo quasi cosmico, intriso di visioni distopiche che vedono nella macchina solo una minaccia per il futuro dell’uomo.

Noi crediamo che sia giunto il tempo di ragionare in chiave letteralmente positiva, senza idealizzare l’automazione ma anche cogliendone le opportunità, soprattutto ricordando un fatto banale quanto semplice: gli automi, i robots, le macchine sono tutte creazioni dell’uomo.

Sono state settimane vibranti, nel mondo dell’innovazione digitale, con il Mobile World Congress di Barcellona e lo speech in cui Zuckerberg ha disegnato un futuro denso di realtà virtuale. Oppure, ancora, con le tesissime partite tra Deepmind, il supercomputer di Google, e Sedol, campione mondiale di Go, che hanno segnato una tappa fondamentale per lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale.

La stampa ha dato grande risalto ai due eventi, ma chi non ha salutato con un pizzico di preoccupazione la foto delle persone, sedute sulle poltroncine, ognuna con il suo visore per la realtà virtuale?  Ha evocato, ai più, le immagini dei romanzi di fantascienza pessimisti o, per ricorrere a luoghi letterari recenti, le previsioni fosche del Cerchio di una società iper-connessa e irrimediabilmente sola.

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Stessa cosa per Deepmind: l’algida vittoria del supercomputer è stata salutata, quasi, come una sconfitta dell’umanità, con buona pace del fatto che si tratti di una grande svolta, invece, e dimenticandosi la meraviglia del campione sconfitto che ha riconosciuto, di fronte a una mossa dell’avversario digitale, la bellezza di un gesto creativo, non umano, e l’accezione di queste due ultime parole è finalmente stupita per l’incontro con un’intelligenza che apprende.

Siamo sul limite di una rivoluzione: ci siamo dentro, anzi, ma resistiamo timorosi.

E allora ecco una storia bella e divertente, una storia che riconcilia innovazione e passato nella curva relativistica del tempo. C’è un po’ della magia e della meraviglia di Hugo Cabret, il ragazzino che ripara gli orologi della stazione di Saint Lazare e cerca di trovare sè stesso negli ingranaggi dell’automa meraviglioso lasciatogli dal padre.

È la storia di uno stereoscopio, oggetto di fine Ottocento, pensato per giocare proprio agli albori del cinema con la tridimensionalità delle fotografie, e di uno smartphone.

È la storia del ventunesimo secolo che, per una volta, rincorre il diciannovesimo, lo incontra e gli stringe la mano.

È la storia di una tecnologia di due secoli fa che funziona perfettamente come visore a 360°, se applicata a un telefonino di oggi, quasi a rivendicare, con la concretezza di un oggetto impolverato, una verità che ci dimentichiamo troppo spesso: l’innovazione e le sue invenzioni sono creazioni dell’uomo.

Quasi per scherzo, convinti che non avrebbe mai funzionato, ma abbastanza audaci da provarci ugualmente, abbiamo preso uno stereoscopio per immagini statiche della metà dell’Ottocento, uno strumento inventato dal medico e scrittore americano Oliver Wendell Holmes nel 1869 a sua volta ispirato dai primi lavori sulla stereoscopia del fisico britannico Charles Wheatstone del 1832.

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Parallelamente abbiamo scaricato dalla App Store di Apple l’applicazione Cardboard di Google per realtà virtuale, un app che sdoppia le immagini e che attraverso speciali occhiali permette una visione immersa dei contenuti.

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Poi abbiamo sostituito le immagini statiche di Holmes con il nostro smartphone in cui girava l’app appena scaricata. E indovinate un po’? Funziona! Il nostro stereoscopio ottocentesco ci ha mostrato la realtà virtuale e tridimensionale in movimento. Davvero un bel matrimonio tra ottocento e ventunesimo secolo!

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Vorremmo che la semplicità della scoperta restituisse centralità all’homo sapiens, che si diverte a volte ad autoescludersi in periferia e che, nonostante tutto, rimane sempre padrone e responsabile del suo futuro.

Mi piace immaginare che il mondo sia un unico grande meccanismo. Sai, le macchine non hanno pezzi in più. Hanno esattamente il numero e il tipo di pezzi che servono. Così io penso che se il mondo è una grande macchina, io devo essere qui per qualche motivo. E anche tu!

Così dice Hugo sognante, affascinato da una macchina che, come lui, ha qualche pezzo fuori posto e necessita di cure e di riparazioni. Le macchine sono parte della nostra natura.

Non dimentichiamolo mai quando pensiamo al domani perché il futuro ci imita.

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