Innovazione
Lo Stato, l’Innovazione, la Società
Superata la fase più acuta della pandemia di Covid 19, almeno in Italia, il governo si ritrova a fronteggiare la crisi economica conseguente. Ovviamente l’intero mondo sarà alla prese con le conseguenze economiche del virus, ma se in altri paesi la situazione precedente era più rosea, lo stesso non si può dire del nostro. Proprio su questo punto stanno insistendo i paesi frugali nel tentativo di stravolgere il Recovery Fund.
Per quanto il Recovery Fund sia un passo in avanti nell’integrazione europea, non possiamo negare i fatti: l’Italia vive una stagione di stagnazione da quasi vent’anni. Per rendersene conto basta guardare l’andamento del nostro prodotto interno lordo che viaggia su percentuali prossime allo zero come crescita percentuale.
Le misure intraprese dal governo attuale non lasciano nemmeno ben sperare. Il fatto che i fondi siano stati indirizzati più verso il mantenimento di Alitalia, un’azienda ormai allo stremo, che in settori chiave come la sanità dimostra la totale inadeguatezza della strategia del governo nel fronteggiare la crisi. Di fatto anche questo Conte II, che in molti avevamo apprezzato all’inizio vedendo la possibilità di andare oltre l’egemonia della destra reazionaria, ha imboccato la via del restare a galla, senza puntare a una modernizzazione del paese per ritornare a crescere ma difendendo i vecchi privilegi e le proprie bolle elettorali.
Non esiste, ovviamente, una ricetta standard per la crescita. Ma analizzando i dati dal 1985 al 2014 notiamo che il fattore trainante della crescita non è stato l’accumulo di capitali quanto il progresso tecnologico. D’altronde, sono stati gli anni del World Wide Web, dei primi Personal Computer, poi gli Iphone e i Social. Sotto questo frangente l’Italia è notevolmente indietro rispetto agli altri paesi avanzati: le spese per Ricerca e Sviluppo, che negli Stati Uniti, Francia e Germania rappresentano tra il 2% e il 3% del Pil, in Italia soltanto l’1%.
Affinchè la situazione cambi, è necessario reinventare il rapporto tra Stato e Privato. Dagli anni ‘70, quando Margareth Thatcher divenne Primo Ministro in Inghilterra, il mantra è stato “meno stato più mercato”: questa visione puramente ideologica, che ha portato sì a una modernizzazione dei paesi che l’hanno adottata ma anche a situazioni di estremo disagio, come l’ampliarsi delle disuguaglianze, con un aumento considerevole dell’indice di Gini, sembra essere ormai arrivata al capolinea. In Italia, inoltre, la stagione delle privatizzazioni non ha coinciso con una maggior concorrenza e una modernizzazione dello Stato, rimanendo ancorata a una politica corporativa, interessata principalmente al non scontentare la propria base elettorale.
Per questo, il rapporto tra Stato e Privato non deve più prendere la forma di un trade off, nemmeno ricadere in stereotipi come lo Stato inefficiente o il mercato infallibile. Il termine adeguato per descrivere la relazione tra Stato e Mercato è compenetrazione. Lo stato deve indirizzare e stimolare l’innovazione, investendo in settori strategici e nella ricerca di base e applicata. Questo non deve tuttavia essere confuso con un ritorno a politiche di tipo socialisteggiante. Non deve nemmeno essere un’apologia della spesa pubblica improduttiva. Sempre per riprendere un esempio fatto in precedenza, gli sforzi che il governo sta facendo per rilanciare Alitalia, dovrebbero essere indirizzati altrove, ad esempio in politiche sociali contro l’abbandono scolastico che, in regioni come la Sardegna, raggiunge percentuali spaventose.
Gli investimenti in R&S non sono l’unica strategia che ha lo Stato per incoraggiare la crescita tecnologica. Uno dei punti cardine di politiche di incentivo all’innovazione tecnologica deve passare attraverso la sburocratizzazione e la digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, una seria riforma della giustizia e un ricalibrazione della tassazione, fino ad oggi concentrata sul lavoro e non sui patrimoni (una proposta seria e di sinistra sarebbe il ritorno a un’imposta patrimoniale progressiva come l’IMU).
Ma l’innovazione tecnologica ha anche i suoi lati oscuri: perfino nella sua formalizzazione più rudimentale, si nota che il rapporto tra innovazione tecnologica e capitale umano è inversa. Crescendo il livello di innovazione tecnologica- quindi disponendo di nuovi utensili e macchinari- diminuisce la forza lavoro impiegata. Questa caratteristica, come fa notare Harari, è estremizzata in questi ultimi anni: se infatti durante la rivoluzione industriale il contadino poteva essere impiegato nelle nascenti fabbriche, sarebbe difficile ricollocare lavori che presto vedremo diminuire drasticamente se non sparire. Non ci deve stupire questo fatto: il machine learning, il deep learning e le nuove frontiere dell’intelligenza artificiale riescono ormai a sostituire la forza lavoro anche in compiti estremamente complessi. Nei prossimi anni, ad esempio, è possibile che le forze dell’ordine vedranno il loro organico diminuire, sostituiti da telecamere “intelligenti” disseminate in tutta la città.
Per questo l’innovazione tecnologica deve andare di pari passo con un rafforzo delle politiche sociali. Il reddito di cittadinanza, ad esempio, così tanto vituperato, dovrà diventare un strumento efficace per permettere ai lavoratori privi di skills spendibili nel mondo del lavoro di acquisirne, attraverso dei corsi appositi. E, ancora più importante, sarà necessaria una riforma totale del mondo della formazione. Questa però non dovrà indirizzarsi verso una formazione strettamente tecnica, ma individuando i punti di forza degli studenti, con corsi molto più flessibili.
Non solo. Una sorta di degenerazione oligopolistica è tutt’altro che irrealistica: la concentrazione dei mezzi di produzione tra un numero ristretto di imprese, l’estromissione dal mercato del lavoro di buona parte della popolazione soggiogata al puro ruolo di consumatore.
Affinché l’innovazione possa prosperare e dare i suoi frutti, tuttavia, c’è bisogno di una vera e propria rivoluzione culturale. In Italia abbiamo vissuto in questi anni con il mito dell’incompetenza, con la retorica del “io speriamo che me la cavo“. Siamo agli ultimi posti in Europa per numero di laureati, competenze digitali. Senza un’attitudine più aperta verso il cambiamento, senza cambiare i nostri modelli (ovvero quei personaggi pubblici verso cui il pubblico si orienta per modellare il proprio IO), rinchiudendoci in una visione gloriosa del passato, l’Italia è destinata a un inesorabile declino, vedendo partire i giovani talentuosi e stretta tra un elettorato miope e una classe dirigente di incompetenti.
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