Innovazione

La ricetta svizzera per la super-innovazione: tanti soldi e ottime università

30 Settembre 2017

Secondo il Centro Studi Confindustria, l’emigrazione dei giovani italiani all’estero costerebbe al paese molti miliardi di euro. 14 nel solo 2015, come si può leggere nel rapporto di settembre (e si tratta di una stima per difetto). Ma se l’Italia esporta, oltre alle quattro A di arredo, abiti, auto veloci e agroalimentare, anche “capitale intellettuale”, altre nazioni lo valorizzano e lo importano. È il caso della Svizzera, che infatti è il paese con la più bassa “fuga di cervelli” di tutto il mondo, a detta dell’Economist. Non a caso l’ETH, il leggendario politecnico di Zurigo dove ha insegnato pure Albert Einstein, vanta più di 19mila studenti da 120 paesi diversi. E il CERN è una sorta di ONU del genio scientifico.

Anna (il nome è fittizio) è una ricercatrice italiana emigrata nella confederazione; a Gli Stati Generali racconta: «Nel centro di ricerca dove lavoravo non avevo alcun orizzonte, tranne il precariato a vita. Alcuni amici hanno deciso di rimanere. Io no. Preferisco concentrarmi sulla mia ricerca senza dovermi preoccupare delle bollette. Tornerò in Italia, forse, quando mi sarò affermata, grazie agli svizzeri». Anna ride, e aggiunge: «Lei ha presente quel film, “Smetto quando voglio”? È una satira, ma calzante. Come potevo restare?»

La Svizzera investe quasi il 3% del suo PIL in ricerca e sviluppo. Un dato (che in soldoni significa tra i 16 e i 20 miliardi di franchi, a seconda dell’anno) e che contribuisce a spiegare perché sia considerata uno dei paesi più innovativi del mondo. Anzi, il più innovativo, almeno a detta del Global Innovation Index 2017. Che la pone avanti a paesi rinomati per la loro capacità tecno-scientifica come la Svezia, i Paesi Bassi, gli Stati Uniti, il Regno Unito, Singapore. Per la Commissione Europea la Svizzera è un innovation leader, e negli anni la sua performance è cresciuta, rispetto a quella della UE, del 9,2%.

Oltre ad attrarre “cervelli in fuga” dall’estero (e a tenersi quelli che ha), la Svizzera vanta una popolazione ben istruita, e un’istruzione che riceve investimenti adeguati: il 5% del PIL, contro il 4% italiano. Per esempio, un prof ordinario all’università guadagna quasi 13mila franchi (circa  11mila  euro) al mese, e un docente di scuola secondaria a Zurigo 8.500 (circa 7.400  euro), più di un analista finanziario con cinque anni di esperienza (8.400 CHF) o di un ingegnere informatico (8.100 CHF); certo, il costo della vita in Svizzera è molto più alto che da noi, ma comunque cresce il numero di insegnanti lombardi che trova lavoro in qualche scuola del Canton Ticino.

Se si chiede agli esperti quale sia la ragione dell’attenzione della Svizzera per l’innovazione, la risposta è più o meno la seguente: “la necessità aguzza l’ingegno”. Perché un paese come la Svizzera, piccolo, con poca popolazione e povero di materie prime, non poteva che puntare sull’innovazione. Lo spiega bene il professor Sergio Rossi, ordinario di macroeconomia e di economia monetaria presso l’Università di Friburgo: «Non avendo alcuna materia prima ed essendo una piccola economia aperta, la Svizzera è costretta a investire molto nelle attività di ricerca e sviluppo per restare concorrenziale nell’economia globale». Ancora, «grazie alla sua stabilità politica ed economica, la Svizzera attira molti capitali stranieri che contribuiscono al finanziamento dell’innovazione di processo e dell’innovazione di prodotto. Invece molte PMI italiane non hanno né i capitali né le risorse umane necessari per finanziare e svolgere questo tipo di attività innovative».

In effetti le imprese svizzere sono il pilastro della knowledge economy elvetica. Oltre il 60% degli investimenti in R&D viene dalle aziende, il resto grava sui singoli cantoni e su Berna. Certo, la Svizzera può contare su un cospicuo numero di multinazionali attive in settori naturalmente ad alta intensità tecnologica come la farmaceutica e la chimica: Novartis, ABB, Nestlé… Basti pensare che nel 2016 le 24 principali aziende farmaceutiche elvetiche hanno speso ben 7 miliardi di franchi in R&D (un investimento pari quasi al doppio del valore delle loro vendite nella confederazione, come fa notare il sito dell’associazione Interpharma).

In realtà però l’innovazione è appannaggio di una miriade di aziende. Nel complesso il manifatturiero elvetico vale il 19% del PIL (un dato superiore a quello nostrano), è sempre più high-tech, e occupa un crescente numero di ingegneri, informatici e altri tecnici specializzati. Osserva Anna, la ricercatrice italiana oggi occupata nella confederazione: «Non è che gli svizzeri siano più buoni o illuminati di noi. Semplicemente, hanno capito che con la ricerca si possono fare soldi. Magari un giorno lo capiranno anche gli italiani».

Un dato confermato da Amalia Mirante, docente di economia alla Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana. «I nostri studenti sono i generatori dell’innovazione. Il loro contributo al miglioramento dei processi, delle produzioni e delle organizzazioni è indispensabile. Sia che rimangano nell’accademia o che decidano di mettere su un’azienda».

In effetti sono tantissime le startup che in Svizzera trovano un habitat favorevole: ottimi centri di ricerca e talenti in abbondanza, infrastrutture adeguate, incentivi, e anche capitali di rischio (724milioni di dollari di VC investiti nella Confederazione nel 2015, secondo Ernst & Young; in proporzione, più che in Francia, Germania e Regno Unito – ma comunque assai meno che negli Stati Uniti, o in Israele).

«La Svizzera è probabilmente uno dei posti migliori al mondo dove fare business – conferma Kaspar Helfrich, amministratore delegato e co-fondatore di Archilogic, startup con la mission di digitalizzare tutti gli edifici del mondo – L’ETH e altri atenei producono dei talenti davvero straordinari, e si sta sviluppando in fretta una cultura del funding».

La BestMile, da parte sua, è una startup della mobilità automatizzata. «La nostra piattaforma consente ai veicoli autonomi di lavorare in modo coordinato, come una flotta, e agli operatori del settore di fornire, attivare e scalare servizi di mobilità autonoma – dice Maud Simon, una manager della startup –. Abbiamo uffici a San Francisco e a Londra, ma siamo nati qui in Svizzera, nella città di Losanna, da uno spin-off dell’EPFL». Il politecnico, che vanta tra i suoi docenti e studenti premi Pritzker, CEO di multinazionali, nonché luminari della fisica e della matematica, è un altro esempio dell’eccellenza tecno-scientifica elvetica. Lo conferma Rossi. «La Svizzera beneficia di una rete articolata di istituti di ricerca finanziati dal settore pubblico o dall’economia privata, che sono in stretto contatto con le università e i politecnici, all’interno di un sistema formativo che mira all’eccellenza».

Certo, fare sistema (formativo e non solo) è più facile quando si è un paese piccolo, di appena 8 milioni di abitanti, e con ottimi collegamenti interni. Il rovescio della medaglia però, è la dimensione asfittica del mercato nazionale. Esportare o morire dunque, bisogna fare di necessità virtù. Lo conferma Mirante: «una peculiarità dell’economia elvetica è la sua apertura, che la porta ad avere scambi importanti con gli altri Paesi. Basti pensare che il 12% del suo PIL dipende dalle esportazioni nette». Un risultato significativo per un Paese senza materie prime né una tradizione di industria pesante, e che sin dagli anni Settanta si è confrontato con una valuta forte, nota ancora la docente. «Caratteristiche che, insieme alla piccola dimensione e agli stipendi alti, hanno portato la Svizzera a dover competere in termini di qualità anziché di prezzi. E, quindi, alla necessità di investire in ricerca e sviluppo per innovare».

“In Italia, nei trent’anni sotto i Borgia, hanno avuto guerra, terrore, omicidi e carneficine, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto l’amore fraterno, cinquecento anni di democrazia e pace, e cosa hanno prodotto? L’orologio a cucù”. La battuta, fulminante, è dello scrittore Graham Greene. Ma è del tutto infondata. La Svizzera è una terra di invenzioni: nel 2015 ci sono state 873 domande di brevetto ogni milione di abitanti; un record mondiale, superiore a quello dei Paesi Bassi con 419 domande per milione, e della Svezia, con 392 per milione.

Ma non è tutto oro quel che luccica. Innovazione fa rima con invenzione, ma serve a poco se non sfocia nella conquista dei mercati. E alcuni mercati sono più impervi di altri. È il caso del digitale, ad esempio, dove la concorrenza è feroce e i ritmi spietati, e che si sta dimostrando difficile da conquistare per la Confederazione. Uno dei settori dove il mondo sta correndo, ad esempio, è il fintech, su cui Gli Stati Generali hanno scritto più volte. In Svizzera ci sono varie startup interessanti specializzate in bitcoin e affini, ma la strada è ancora in salita, specie per le banche e finanziarie di Zurigo, Lugano, Ginevra. Che ora assistono con una certa inquietudine all’ascesa di nuovi competitori tecno-finanziari dalla Silicon Valley e dall’Estremo Oriente.

Nota l’economista Rossi: «Questo settore è in profonda trasformazione a seguito della crisi finanziaria globale. Le grandi banche svizzere, come alcune di taglia minore, stanno sempre più orientandosi in modo disordinato verso le tecnologie blockchain, allo scopo di aumentare i loro margini di guadagno, ormai erosi da una serie di stravolgimenti epocali, tra cui anche il fintech. In questo campo la competizione è enorme sul piano globale e le banche svizzere hanno perso la loro rendita di posizione con lo scambio automatico di informazioni fiscali con l’estero». L’innovazione, in fondo, non è facile per nessuno. Neanche per gli svizzeri.

 

 

 

In copertina: l’ETH di Zurigo

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