Innovazione

La macchina che si guida da sola? La ricerca è italiana, il business altrove

15 Maggio 2015

«Veemente dio d’una razza d’acciaio, Automobile ebbrrra di spazio!, io scateno il tuo cuore che tonfa diabolicamente, scateno i tuoi giganteschi pneumatici, per la danza che tu sai danzare via per le bianche strade di tutto il mondo!» I versi di Marinetti testimoniano la relazione privilegiata che l’Italia moderna avrebbe stretto con le macchine, divinando il ruolo centrale che la Fiat avrebbe interpretato nello sviluppo economico del Paese per decenni, ed esprimendo la passione infantile, condivisa a tutti i livelli della società civile, per tutto ciò che scatena i rumori più fastidiosi nel traffico stradale (crrrrollanti a prrrrecipizio interrrrrminabilmente). Intuiscono anche il debole che gli italiani avrebbero poi sempre mostrato per il fascismo e per la sua retorica, ma questa è un’altra storia.

L’automobile che si guida da sola è una delle applicazioni dell’intelligenza artificiale che sembra destinata a invadere nel giro di pochi anni i mercati internazionali e le strade delle nostre città. Non è chiaro quanto la novità potrebbe accendere di entusiasmo la vena poetica di Marinetti, dal momento che il software lo esilierebbe lontano dal volante e dall’acceleratore, impedendogli di sentirsi al comando della potenza di fuoco del motore e del suo rombo. Ma occorre comunque una fantasia degna di un poeta – anche se stemperata da una buona dose di senso pratico da analista economico – per immaginare la portata delle trasformazioni che l’irruzione di una simile innovazione comporterà non solo nelle nostre abitudini di spostamento, ma nelle macrostrutture economiche e sui loro riflessi politici e sociali. Di solito ci si limita a pensare che l’apparizione della macchina che si guida da sola lascerà intatto il mondo come lo conosciamo, salvo mettere in circolazione delle automobili che hanno un software ai comandi, invece di una persona fisica. Il passaggio, se avverrà, non sarà così innocuo e indolore.

Vale la pena anzitutto dare un’occhiata ai soggetti che avanzano la pretesa di presentarsi come i protagonisti della nuova epoca: i loro nomi non sono i brand che siamo abituati ad associare al mondo dell’automotive, come Fiat o Renault, ma coincidono con i soliti noti degli ambienti digitali: Google e Apple. Si aggiungono vecchie conoscenze, come Tesla e Audi, nelle cui proposte riappaiono scenari più tradizionali, conditi con i necessari aggiornamenti tecnologici. Circa due mesifa Adam Jonas di Morgan Stanley Research ha pubblicato un’indagine in cui schematizza il quadro delle concezioni del futuro integrate nelle filiere di produzione pianificate dai diversi player.

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Il contesto in cui si muovono i giganti provenienti dalla Rete non è quello della proprietà individuale dell’automezzo, come accade oggi. La prospettiva strategica verso cui tendono è quella che si potrebbe descrivere come un Car2Go bulimico o un Uber 2.0, secondo l’etichetta più cortese scelta da Jonas. In altre parole, la macchina non solo smetterebbe di rappresentare uno status symbol, ma cesserebbe anche di suscitare un bisogno di possesso personale o famigliare, finendo per rimanere completamente assorbita nelle logiche del car sharing, che già oggi si incarnano in esperimenti di successo come Enjoy o Car2Go. Di fatto l’interpretazione attuale dei dispositivi di proprietà trasforma l’automobile in un bene con un valore largamente sottoutilizzato: Jonas stima che in media una vettura spenda in viaggio il 10% della sua vita, mentre per il resto del tempo rimane a giacere in un parcheggio. Un sacco di talento sprecato.

Vale la pena quindi di abbandonare la strategia del possesso privato e di ricorrere alla condivisione della macchina, in modo da alleggerire il bilancio famigliare e sfruttare al massimo le potenzialità tecnologiche. Secondo uno studio dell’MIT basterebbero 300 mila vetture per risolvere tutte le esigenze di mobilità della popolazione di Singapore (6 milioni di persone), con picchi massimi di attesa intorno ai 15 minuti negli orari di punta. L’analisi su questo territorio è agevolato dal fatto che già ora solo il 30% degli abitanti di Singapore possiede un’auto privata, con un dato in controtendenza rispetto alla situazione americana, dove l’80% delle famiglie ha acquistato un veicolo per conto proprio.

Uno studio dell’Earth Institute presso la Columbia University ha stimato che in una città media americana di 285 mila abitanti sono presenti 200 mila macchine, e che 3/5 di questa flotta vengono utilizzate principalmente per spostamenti locali: ogni giorno le strade urbane sono solcate da 528 mila viaggi che non escono dai confini della municipalità, per una lunghezza media di 9 km e con 1,4 passeggeri per veicolo. La ricerca denuncia che basterebbero 18 mila automobili per rispondere ad una domanda di mobilità equivalente a quella di un simile contesto urbano, con un’attesa massima di un minuto per l’arrivo del mezzo. Con l’ottimizzazione del parco veicoli, i costi annuali per passeggero scenderebbero da 0,46 dollari al km, a 0,25; se si ricorresse a macchine elettriche, la riduzione scenderebbe addirittura a 9 centesimi.

L’ottimizzazione del traffico automobilistico avrebbe un impatto notevole sui volumi di inquinamento generati dal carburante del trasporto su gomma. Si calcola che il suo contributo ammonti al 20% delle emissioni complessive di anidride carbonica mondiali, con un peso di 5 miliardi di tonnellate di CO2 diffuse ogni anno nell’atmosfera. Ma la pressione economica trasforma il passaggio alla macchina che si guida da sola in un’ottima occasione per l’implementazione dei motori elettrici. Da un lato il costo energetico per ogni chilometro percorso si abbasserebbe in modo significativo; dall’altro lato il problema della ricarica di energia verrebbe risolto dal software che gestisce il traffico e lo smistamento ottimale dei veicoli nei parcheggi. L’esperienza su questo tema è stata accumulata con il bike sharing, che ha messo in luce come uno degli investimenti più sostanziosi dell’operazione derivi dalla ridistribuzione su furgoni delle bici secondo criteri equi di assegnazione (calcolati a mano) nei vari quartieri della città.

Il mercato dei motori è un forziere da 10 mila miliardi di dollari, ed è naturale che susciti l’appetito delle aziende più innovative sulla scena internazionale. Google conta su un valore finanziario di 400 miliardi di dollari, più quanto possano raggiungere Toyota, Volkswagen e General Motors messe insieme; dal 2011 ha depositato 96 brevetti in ambito automobilistico, e ha assunto l’ex amministratore delegato di Ford, Alan Mulally, per la direzione delle scelte strategiche. Da oltre un secolo il settore non conosce innovazioni sostanziali (almeno dal momento dell’introduzione del motore a scoppio a quattro tempi), conducendo ad un ingolfamento sempre più evidente dei problemi ambientali e sociali, collegati al traffico e all’inquinamento. Ora che nuovi soggetti, estranei al settore metalmeccanico e a quello energetico, hanno acquistato un potere finanziario di primo piano, con risorse di spesa senza paragoni (per Google si tratta di una disponibilità di liquidi per 60 miliardi di dollari), lo scenario sembra destinato a cambiare in modo radicale.

La razionalizzazione della congestione sulle strade non avrà effetti positivi solo sui tassi di emissioni nocive nell’aria: sebbene la questione sia ancora controversa, la prospettiva più accreditata è che diminuiranno anche incidenti e lutti automobilistici. Il tema è di importanza indubbia, visto che l’Organizzazione Mondiale della Salute calcola che le morti per sinistro stradale siano 1,24 milioni ogni anno. Secondo una ricerca dell’Università del Michigan non è realistico immaginare che l’adozione delle macchine che si guidano da sole possa di per sé azzerare collisioni e decessi: non è infatti possibile eliminare le cause di infortunio esterne alla conduzione del veicolo, che coinvolgono lo stato del manto stradale, la situazione atmosferica – e naturalmente il comportamento degli altri piloti in movimento, con particolare preoccupazione per quelli umani. Di per sé, la guida automatica delle vetture sembra poter garantire le prestazioni «di un conducente di mezza età con esperienza». In qualche modo si tratta dell’attesa migliore che si potrebbe alimentare nei confronti di un essere umano, e a questa si deve aggiungere che il computer non si distrae, non ha sonno e non beve. Almeno per ora.

Viste le garanzie sperimentali, la paralisi indotta nei governi dal pessimismo tecnologico potrebbe pesare con un bilancio più costoso, in termini di incidenti e decessi, rispetto ai rischi dell’innovazione: per di più, gli ingegneri promettono che anche in questo settore la Legge di Moore offrirà il suo contributo, e la qualità dei software alla guida delle automobili continuerà a crescere nel corso del tempo. Per quanto mi riguarda, sono sicuro che a fare meglio di me, nonostante la mia collocazione nella fascia di mezza età, ci metteranno pochissimo. Se non hanno già vinto fin da ora la sfida.

Car sharing, diminuzione delle automobili in circolazione e abrogazione del possesso individuale della vettura, razionalizzazione del traffico, contrazione degli incidenti stradali: in questo primo elenco di condizioni è già pronunciata in modo implicito una serie di conseguenze che investono l’industria metalmeccanica e quella dell’energia, ma anche lo sviluppo del design, la gestione del trasporto pubblico (dalle metropolitane ai taxi), le scelte politiche di urbanistica, la struttura delle polizze assicurative.

In uno scenario in cui gli individui non acquisteranno più una macchina per se stessi, quale evoluzione potrà maturare l’industria del design? L’esigenza di una ricerca di forme seduttive e di cambiamenti continui andrà di certo spegnendosi. Quali saranno poi gli impatti sulla pianificazione dei mezzi urbani e sulle ferrovie? L’onda d’urto come colpirà il lavoro dei taxisti? L’ingresso di Uber nel mercato dei trasporti si è disegnato con contorni molto più modesti rispetto a quello che è dato presentire nell’arrivo delle macchine che si guidano da sole; quale reazione delle classi di lavoratori del trasporto privato ci si deve attendere in questo scenario nel futuro prossimo?

Se dovesse imporsi, la rivoluzione dei veicoli a guida automatica coinvolgerebbe in modo diretto anche i responsabili delle politiche urbanistiche, dal momento un software e il suo archivio di Big Data si imporranno come che il principale interlocutore delle loro analisi e delle loro decisioni. Il controllo di una flotta di automobili che viaggiano in car sharing può permettersi di ottimizzare gli spostamenti perché rompe i limiti della visione atomistica di ogni singolo veicolo, e agisce con un’intelligenza artificiale che coordina l’intero sciame delle unità in movimento. Il software conosce non soltanto la situazione del traffico in tempo reale, ma anche lo storico delle abitudini di tutti coloro che si spostano nei diversi quadranti geografici: nelle maglie del controllo finisce non solo la fotografia della situazione al momento, ma anche una previsione attendibile di quello che accadrà nelle fasi successive della giornata. Almeno sul piano della mobilità stradale, siamo già entrati nell’epoca della tecnologia politica.

«Scendete dalla macchina con uno scatto leggerissimo ed elastico. Vi siete levato un peso di dosso.» Tra gli entusiasmi automobilistici di Marinetti, quello di uscire dalla vettura rimarrà tra i pochi gesti ancora in potere degli uomini – dopo essersi tolti di dosso anche il peso dei costi assicurativi, dal momento che la responsabilità dei movimenti sarà attribuita all’automatismo della vettura, e non del suo ospite. Ma più ancora degli urbanisti, degli assicuratori, dei conducenti di mezzi pubblici, i segmenti più immediatamente colpiti dall’innovazione saranno quelli della logistica e dell’industria metalmeccanica.
Uno studio del 2014 compilato dall’Università di Oxford aveva indicato nel settore del trasporto di materiali l’area professionale più minacciata dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale e dall’ingresso della robotica nelle attività produttive. Già oggi la logistica dell’impero commerciale di Amazon sta per essere affidata ai droni: i robot sono destinati a dominare in breve tempo la gestione dei magazzini, mentre Bezos e Google sembrano aver avviato la competizione sulla riduzione dei tempi di consegna a domicilio in 24 ore, attraverso il ricorso a velivoli autocomandati.

Il segmento professionale immediatamente successivo nella classifica del pericolo di sostituzione è quello degli operai nelle catene di montaggio. Ma oltre al rischio di rimpiazzo dell’attività umana con quella robotica nella filiera di produzione tradizionale, l’arrivo della macchina che si guida da sola sembra annunciare anche una drastica diminuzione della richiesta di autoveicoli in circolazione – insieme al trasferimento, almeno parziale, delle quote di mercato dai brand tradizionali ai nuovi protagonisti dell’innovazione, da Google a Apple. Alcuni marchi, come Audi, Mercedes, BMW, General Motors, hanno tratteggiato una loro strategia di passaggio alla guida automatica. In Italia è nato da oltre 15 anni a Parma un centro di fama internazionale nella ricerca sui veicoli a conduzione automatica: VisLab è uno spin-off dell’Università di Parma, coordinato da Alberto Broggi, che ha costruito prototipi capaci di muoversi sia in ambienti rurali, sia nel traffico cittadino del capoluogo emiliano.

Ma un’eccellenza non salverà il Paese: questa almeno è la convinzione del Boston Consulting Group che colloca l’Italia tra le nazioni destinate a perdere terreno nella competizione internazionale dell’industria manifatturiera – sebbene rientri tra le cinque nazioni in cui la «robot density» ha valicato la soglia dei 1000 automi ogni 10.000 operai umani, insieme a Giappone, Francia, Germania e Stati Uniti. Il problema non sembra essere confinato al calcolo della quantità di tecnologia coinvolta nei processi produttivi, ma all’orizzonte strategico complessivo in cui si muove il nostro Paese (e su questo versante sembra essere in buona compagnia, visto che lo studio di Boston Consultant ci affianca nella perdita di competitività al Belgio, alla Francia, alla Svezia e alla Svizzera). La macchina che si guida da sola, come ho cercato di raccontare, non è un fenomeno puntiforme nello scenario del futuro prossimo, ma irrompe come un fattore di trasformazione complessiva, dall’inquadramento urbanistico alla pianificazione dei trasporti pubblici, dalla logistica al mercato delle assicurazioni. Il passaggio dalla robotica muscolare alla robotica di servizio implica la necessità di ripensare in modo sistemico la società e la divisione del lavoro (almeno di quello che ne resta). Un Paese che ha sviluppato un talento ineguagliato nell’arte di cambiare tutto affinché tutto resti come prima, non sembra indicato per assumere un ruolo protagonista in questo orizzonte di trasformazioni. L’informazione e l’automazione intelligente permettono di abbattere i costi di produzione, vincendo la competizione con le nazioni il cui successo si è fondato sul costo contenuto della manodopera (come la Cina, il Brasile, l’India) – reimportando la manifattura nei luoghi stessi in cui è nata la competenza di ideazione e di progetto. Se l’Italia fosse capace di tenere fede almeno alla sua tradizione, il nuovo panorama le assegnerebbe una posizione di leadership per legge di natura. Ma sembrano davvero pochi quelli che credono in questa possibilità. Sarà perché in Boston Consulting nessuno ha letto Marinetti?

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