Innovazione
La Fabbrica Duttile, nuova frontiera del Made in Italy
Il Novecento è stato il secolo delle fabbriche, in tutto l’Occidente. Pensiamo solo al passato prossimo italiano, e al peso storico di luoghi del produrre come il lanificio Rossi di Schio e il villaggio di Crespi d’Adda; gli stabilimenti della Breda a Sesto San Giovanni e la Siva di Torino (la fabbrica di vernici dove lavorò per anni Primo Levi); gli impianti della FIAT e della Pirelli; le mitiche officine Olivetti. Nomi di grande forza evocativa, che segnano la storia del nostro Paese.
Tra la fine del Novecento e l’inizio di questo secolo, tuttavia, la fabbrica sembrava essersi trasformata per l’Occidente in un fossile del passato, come gli allevamenti di cavalli e le miniere di carbone. In America stati un tempo roccaforti del manifatturiero, ad esempio il Michigan, sprofondavano nella crisi, diventando il cuore della Rust Belt, la “cintura della ruggine” che oltreoceano è sinonimo di de-industrializzazione. Nel Regno Unito, culla della Rivoluzione industriale, assieme al settore minerario chiudevano anche stabilimenti navali, siderurgici, automobilistici. Pure in Italia, benché con molte sfumature, prendeva piede l’idea che l’era della fabbrica fosse tramontata per sempre, e che il domani appartenesse solo alla new economy post-fordista.
Ma se in Occidente le fabbriche chiudevano, nell’Estremo Oriente l’era del manifatturiero non accennava ad estinguersi, anzi. Dalla Cina all’India, dalla Corea del Sud al Vietnam, sia i governi che gli imprenditori continuavano a investire massicciamente nel secondario (una scelta saggia, che avrebbe dimostrato tutta la sua bontà nel 2008, anno della grande crisi finanziaria dell’Occidente). E proprio in Estremo Oriente, per la precisione nelle fabbriche del colosso automobilistico giapponese Toyota, nasceva addirittura il nuovo paradigma produttivo: quello del lean manufacturing, basato sui concetti di Qualità totale e Fabbrica integrata.
Personalmente, questa filosofia mi ha aiutato a elaborare il concetto di “fabbrica duttile”, che a mio parere si adatta bene alle tante PMI manifatturiere italiane ibride. Quelle aziende, cioè, lontane dalle tipiche fabbriche specializzate nella produzione di massa di un solo prodotto, ma che invece sanno usare le stesse risorse e competenze per fare prodotti e/o servizi molto diversi tra loro. Fabbriche furbe, veloci, allenate alla multidisciplinarietà. Fatte per progettare, prototipare e produrre pezzi unici o piccole serie (magari ad alto livello di personalizzazione), da vendere poi sui mercati globali.
Le PMI ibride mescolano competenze tecniche e manuali di natura artigiana con un forte know-how tecnologico, e sono caratterizzate da una doppia anima, analogica e digitale (digilogica, insomma). Il punto, in effetti, è che oggi è cruciale saper orientare il proprio flusso produttivo verso settori agli antipodi tra loro, e verso clienti molto mutevoli e sofisticati; il tutto usando, come dicevo prima, le stesse risorse, ma amplificando la propria capacità di customizzazione. La quadratura del cerchio.
Non si tratta “soltanto” fare di più con meno, ma di saper fare tantissimo con pochissimo. Questo tipo di fabbrica non si limita a essere flessibile, ma deve essere anche duttile. L’azienda si apre al mondo esterno proprio laddove la storia dice che era obbligo nascondersi, creando reti di intelligenze e competenze; si trasforma sempre più in un serbatoio di intelligenza applicata che, grazie al proprio bagaglio di abilità e competenze creative, tecnologiche e artigiane riesce a plasmare il proprio saper fare sui bisogni e i desideri del cliente. Merito di un approccio che oltre a essere, appunto, flessibile, è anche multidisciplinare, contaminante, e perciò intrinsecamente incline all’innovazione. Un approccio che può aiutare a recuperare margini anche nei confronti delle grandi realtà industriali asiatiche.
L’aggettivo duttile a mio parere rende bene l’idea. Come spiega la Treccani, nelle sue due accezioni può indicare sia “un materiale che può subire, sotto l’azione di forze di trazione, deformazioni plastiche rilevanti in modo da poter essere ridotto con facilità in fili o anche in fogli sottili” (sono duttili metalli nobili come il platino e l’oro), sia un soggetto che apprende con facilità, che può applicare la propria intelligenza ad ambiti diversi. E in effetti la fabbrica duttile è quella che da un lato sa trasformare il suo profilo adattandosi alle forze, sempre più imperiose, di una globalizzazione che nessuno riesce più a controllare, e alle più svariate sollecitazioni esterne; dall’altro è l’azienda polivalente, dotata di un’intelligenza multiforme (e qui non si può non pensare ad Ulisse, dal “multiforme ingegno” come si legge nel celebre proemio dell’Odissea).
In una “fabbrica duttile” i collaboratori sanno fare (bene) tante cose. Il vantaggio è che non si annoiano (quasi) mai, lo svantaggio è che saper fare bene tante cose è faticoso. D’altra parte è lo stesso Taiichi Ohno, storico manager della Toyota e padre del Toyotismo, a scrivere nel suo saggio “Lo spirito Toyota” (Einaudi): “Nel sistema americano un tornitore è sempre un tornitore e un saldatore è un saldatore fino alla fine della sua vita. Nel sistema giapponese, il ventaglio di competenze di un lavoratore è molto ampio. Può lavorare al tornio, governare un trapano e anche effettuare una saldatura. E può fare anche il fresatore”.
La fabbrica duttile padroneggia più aree del sapere, sa andare oltre la frammentarietà degli specialismi, trova nuovi collegamenti tra le più svariate discipline (l’open innovation è anche questo) e continua ad imparare.
Il mix di competenze artigiane e nuove tecnologie aiuta. Sistemi di additive manufacturing, i veri motori della rivoluzione del digital manufacturing (si tratta delle cosiddette stampanti 3D), sono cruciali per realizzare prodotti ad alto livello di customizzazione, in tempi rapidi e a costi contenuti; al contempo gli artigiani arrivano laddove la macchina si ferma, con un occhio straordinario per il dettaglio e una capacità di raffinare il prodotto che è straordinaria. Sono maestranze specializzate, ma la loro specializzazione abbraccia un’ampia gamma di abilità, ed è sempre messa alla prova da nuove, improvvise richieste. Nella serrata competizione commerciale mondiale, le armi segrete dell’Italia sono anche queste.
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