Innovazione
Così Intesa Sanpaolo esplora la frontiera della blockchain
C’era una volta il “bitcoin”, la criptovaluta di genitori ignoti che prometteva meraviglie. Oggi la comunità finanziaria globale, da New York a Singapore, passando per Londra e Zurigo, ha un solo chiodo fisso: la blockchain. Che in italiano, letteralmente, significa “catena di blocchi”.
Nata per supportare il bitcoin (con l’obiettivo di consentire lo scambio diretto), la blockchain è una sorta di registro dove si annotano tutte le transazioni tra una pluralità di soggetti, eliminando il bisogno di intermediari che ne garantiscano la validità.
Un registro che può essere pubblico o privato. In quest’ultimo caso solo gli utenti identificati e autorizzati possono partecipare al network, con lo scopo non tanto di scambiarsi moneta digitale, ma di condividere informazioni e automatizzare processi di business. Potenzialmente, una grande rivoluzione.
I big della finanza internazionale guardano alla blockchain con interesse. Basti pensare a R3, che con il consorzio di banche creato nel 2015 lavora allo sviluppo di una piattaforma privata in ambito finanziario (A tal proposito R3 a novembre 2016 ha rilasciato sotto licenza open-source CORDA, la prima versione del suo Distributed Ledger permissioned). E se ha ragione l’Harvard Business Review quando scrive che “la blockchain farà al sistema finanziario ciò che internet ha fatto ai media”, allora il tema è prioritario non solo per banchieri e tecnologi, ma anche per imprese e cittadini.
A guidare le danze sono i colossi finanziari internazionali, e fra questi c’è anche l’italiana Intesa Sanpaolo, che non a caso fa parte del consorzio R3. Il gruppo guidato dall’amministratore Carlo Messina ha creato anche un osservatorio ad hoc sul fenomeno e ha attivato un laboratorio con l’obiettivo di comprendere il livello di maturità di tale tecnologia, sia nell’ambito pubblico (permissionless, senza permesso) sia privato (permissioned, autorizzato).
Un esempio pratico delle possibili sperimentazioni sulle blockchain pubbliche è la “notarizzazione”: le informazioni che ci interessano potrebbero essere “sigillate” garantendone l’immutabilità all’interno di un registro pubblico.
Naturalmente, condizione indispensabile per far decollare questa tecnologia è l’interazione con il mondo tecno-scientifico. In Italia esistono realtà importanti e molto attive su questo fronte, così come all’estero. Nella Cryptovalley del cantone svizzero di Zug, ad esempio. In America, naturalmente. O nella Silicon Wadi, analogo israeliano della più famosa Valley californiana, grazie al quale Israele è la “startup nation” iper-presente al Nasdaq.
Blockchain Hackathon a Tel Aviv
A fine marzo Intesa Sanpaolo ha partecipato a un hackathon sulla blockchain proprio a Tel Aviv. Una maratona di programmazione (hackathon, appunto), organizzata da The Floor, Intel e dalla Borsa di Tel Aviv, con l’obiettivo di stimolare startup e team di sviluppatori da ogni angolo del mondo (Belgio, Sudafrica, India, Stati Uniti, Israele…) a scervellarsi e proporre nuove idee e prototipi concreti.
«Il nostro ruolo è stato soprattutto di mentori – dice Mauro Pernigo, che si occupa dello sviluppo prodotti nell’ambito del Global transaction banking di Intesa Sanpaolo –. Volevamo offrire loro una conoscenza più specifica delle problematiche bancarie, ad esempio per quanto riguarda i servizi alla clientela. Abbiamo avuto, in altre parole, una funzione di tutoraggio, formazione e consiglio per le brillanti menti che hanno partecipato all’hackathon».
Tra le idee emerse a Tel Aviv, ha suscitato grande interesse quella di Bitmark, che si è anche aggiudicata il primo premio: si tratta di una soluzione per il trasferimento di proprietà di beni digitali utilizzati nella supply-chain. Interessante anche l’iniziativa proposta dagli studenti della Tel Aviv University per la registrazione per mezzo della blockchain della proprietà di beni fisici normalmente non classificati, che potrebbe avere diverse applicazioni future.
Fra le start-up vere e proprie merita attenzione Cryptonomica, che sta sviluppando un quadro giuridico per gli “Smart Contract” sulla blockchain, e quella di Bancor che si è aggiudicata il primo posto con il suo protocollo per lo scambio automatico di criptovalute.
«Oggi si parla moltissimo di blockchain, si susseguono gli annunci su possibili sviluppi e iniziative, e tutti, specie nel mondo bancario, sono impegnati a individuare i possibili ambiti di applicazione di tale tecnologia – conferma Andrea Curti, esperto di blockchain presso l’Innovation Center di Intesa Sanpaolo –. L’hackathon voleva coinvolgere i talenti tecnologici di questo settore, farli dialogare con banche e aziende».
Un approccio inconsueto per una tecnologia che potrebbe avere effetti dirompenti (nel bene e nel male) a livello di pagamenti transfrontalieri, trade finance, mercati dei capitali. Nel trade finance «l’utilizzo di reti distribuite private (permissioned ledger) potrebbe permettere di creare grandi efficienze, rendendo più semplice, veloce e meno costoso un processo al momento assai farraginoso, e che prevede numerosi passaggi di informazione», osserva Curti.
Innovazione sana e prudente
Proprio perché la blockchain rappresenta un vero e proprio cambio di paradigma rispetto ai modelli in uso, occorre cautela: in ballo ci sono i soldi dei risparmiatori e più in generale il funzionamento dei sistemi economici, dalla moneta fino alla tutela dei contratti. Tra i progetti visionari di qualche nerd geniale e la realtà, c’è di mezzo un oceano di regolamenti, tecnicismi, buone pratiche, leggi, consuetudini e complessità di ogni genere.
Se dal punto di vista tecnologico, per la sua adozione saranno necessari ingenti investimenti e dovranno essere superate barriere all’ingresso che ne agevolino la diffusione, non meno complesse sono quindi le problematiche normative. «Il settore bancario non può essere trasformato dal giorno alla notte – fa notare Pernigo – È una realtà con decenni di esperienza alle spalle e standard di comunicazione ben definiti. E lo stesso vale per il settore legale, assicurativo, contabile. La blockchain rende possibili, ad esempio, gli smart contract, ossia quei contratti che in qualche modo possono essere completamente digitalizzati». Come per i bitcoin anche per gli smart contract il possesso è rappresentato da un codice: perciò, continua il manager, «non essendoci una controparte centrale o una banca responsabile, in caso di furto, smarrimento o distruzione del codice, il possessore perde la titolarità del bene, in poche parole perde tutto». Da qui la necessità di procedere con cautela.
Siamo dunque all’alba del cosiddetto regtech: ovvero tecnologie concepite per risolvere problematiche di tipo regolatorio e di conformità normativa. Insomma, in un futuro prossimo venturo i professionisti del diritto, oltre al latino di Ulpiano e al Legal English, dovranno acquisire dimestichezza con i protocolli informatici. Si capisce quindi che sarà fondamentale avere nello stesso tempo un alto grado di innovazione giuridica che permetta di convertire in digitale ciò che tradizionalmente è stato fisico o è stato centralizzato da specifiche autorità: certificazioni di proprietà, brevetti, ipoteche, fideiussioni, per fare qualche esempio. Non è certo un processo rapido né tantomeno può essere frettoloso. «Questi motivi – conclude Curti – ci portano a ritenere che potremo cominciare ad apprezzare gli impatti legati all’adozione diffusa di questa tecnologia nel medio-lungo termine».
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