Innovazione

Innovazioni sociali, comunità e politiche di sviluppo. Appunti di viaggio

11 Aprile 2016

Da qualche anno, grazie alle esperienze fatte in RENA, in Avanzi ed al Comune di Milano ho avuto la fortuna di girare un po’ per l’Italia ed incontrare tante realtà che, consapevolmente o inconsapevolmente, stanno contribuendo a ridefinire concetti come comunità, innovazione, imprenditoria, generazione di valore e processi di sviluppo.

Soprattutto le nostre grandi metropoli si sono trasformare in laboratori a cielo aperto. Viviamo in una fase di transizione tra ciò che non è più e ciò che non è ancora (cit. Annibale d’Elia). Generiamo piccole e grandi innovazioni imparando a sopravvivere e prosperare ai margini del caos (cit. Matteo Brambilla).

Qualche settimana fa mi è capitato di provare a condividere qualche pensiero su quel che sta avvenendo nel corso di un incontro organizzato da ANCI in cui erano chiamati a raccolta tutti in proponenti e i partner dei progetti finanziati attraverso i bandi ANCI Innovazione Sociale.

Mi sarebbe piaciuto trasformare il testo di quell’intervento in un “articolo come si deve”, ma purtroppo non sono ancora riuscito a trovare il giusto tempo per farlo al meglio.

Aspettando tempi migliori, condivido alcuni pensieri qui sotto forma di appunti, con la speranza di contribuire comunque ad alimentare il dibattito in cui città come Bologna, Roma, Milano e Torino sono immerse, anche in vista delle prossime elezioni amministrative.

 

COSA HANNO IN COMUNE I PROCESSI DI INNOVAZIONE SOCIALE A LIVELLO LOCALE?

Per quel che ho potuto osservare, le esperienze di innovazione più interessanti avevano e hanno alcune caratteristiche in comune, oltre alle finalità sociali e ambientali:

  • postulano la collaborazione tra attori di diversa natura: pubbliche amministrazioni, gruppi di cittadini, imprese, associazioni, ONG;
  • incorporano un approccio empirico, che parte dalla valorizzazione dei processi e degli attori esistenti, basato sulla verifica di ipotesi iniziali e valutazioni in itinere;
  • prevedono dei rapporti di natura diversa tra la pubblica amministrazione e gli altri soggetti in campo: non più comando e controllo o erogazione di servizi, ma relazioni basate su trasparenza, responsabilizzazione ed accoutability;
  • vedono l’attore pubblico comportarsi più come una piattaforma, che mette in rete ed abilità chi ha risorse, energie e competenze;
  • coinvolgono attori a volte inattesi, che più che coinvolti o ascoltati vanno scovati, compresi e legittimati, perchè essenziali al raggiungimento degli obiettivi di natura civica che ci si pone.

 

I PROCESSI DI INNOVAZIONE SOCIALE SONO IMPORTANTI PERCHE’ INCARNANO LE CARATTERISTICHE DELLE POLITICHE PUBBLICHE DI NUOVA GENERAZIONE

Queste caratteristiche (e questi attori) sono molto simili a quelle che sembrano informare le politiche pubbliche di nuova generazione.
Questo accade perché ci troviamo in un momento davvero particolare in cui:

  • siamo di fronte all’emergere di nuovi bisogni a cui non servono risposte pre-confezionate;
  • si riducono considerevolmente le risorse a disposizione per fare fronte a questi nuovi e vecchi bisogni;
  • per via di una serie di vincoli strutturali (mancato ricambio generazionale, mancanza di tempo, pressione costante sulla macchina amministrativa) all’interno della PA troppo spesso mancano le competenze adatte per leggere alcuni fenomeni emergenti e portare avanti determinati processi di innovazione;
  • anche quando  queste competenze sono presenti, la PA si dimostra quasi sempre più lenta rispetto ad altri attori della società.

In questo contesto, il ruolo della Pubblica Amministrazione è costretto a cambiare, se vogliamo che “il pubblico” possa continuare ad essere utile. Per rinnovarsi, una alleanza con chi autonomamente sta sperimentando pratiche di innovazione è non solo auspicabile ma necessaria.  I pubblici amministratori devono accettare di perdere un po’ del potere che deriva dal gestire direttamente determinate risorse ed iniziare ad assumersi il rischio di abilitare soggetti terzi, imparando ad intercettare e coinvolgere quelli più “interessanti” (che potrebbero non essere “interessati” a collaborare) e mettendo a punto gli incentivi e gli strumenti più adatti per orientarne e facilitarne l’azione.

 

LE CITTA’ E LE POLITICHE DI SVILUPPO COME TERRENO DI SPERIMENTAZIONE PRIVILEGIATO DI UNA RIFORMA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

Le prime avvisaglie di questo cambio di paradigma si stanno vedendo già da un po’ a livello locale (dove i nuovi bisogni emergono più rapidamente e in tutta la loro drammaticità, per cui bisogna sforzarsi di trovare subito delle risposte) e su quei tipi di politiche come le politiche giovanili e quelle per l’innovazione e lo sviluppo economico su cui gli enti locali non hanno grandi risorse da spendere (per cui si trovano gioco forza a dove sperimentare nuove alleanze e nuove forme di interazione). Le città sono il terreno di sperimentazione privilegiato per la riforma della pubblica amministrazione. I risultati dell’European Capital of Innovation Award ne sono la testimonianza. E non è un caso se città come Torino e Milano sono state premiate proprio per le loro sperimentazioni sui terreni dell’innovazione sociale.

 

CHE CARATTERISTICHE HANNO I MIGLIORI ALLEATI DELL’AMMINISTRATORE LOCALE OGGI?

Chi sono i migliori alleati degli amministratori pubblici, al giorno d’oggi? Quali caratteristiche hanno quei soggetti che abbiamo chiamato “pionieri” e “segnali di futuro”?

  • sono organizzazioni, non singoli individui;
  • li accomuna un certo grado di imprenditività, pragmatismo e orientamento al risultato;
  • sono organizzazioni che nascono con l’obiettivo di fornire risposte innovative a bisogni sociali ed ambientali emergenti;
  • sono organizzazioni che nascono in un periodo di crisi dei regimi di welfare, in cui la riduzione delle risorse disponibili per soddisfare bisogni sociali obbliga chiunque a porsi il problema della sostenibilità economica e dell’efficienza;
  • si distinguono per la capacità di gestire la complessità e ricombinare risorse di natura diversa;
  • si sviluppano a cavallo tra profit e non profit, vogliono raggiungere anche obiettivi di finalità pubblica, sono attivi in settori ed ambiti di rilevanza pubblica (dall’educazione all’imprenditorialità allo sviluppo delle competenze digitali, passando per il design dei processi di partecipazione e dei servizi pubblici);
  • generano valore mettendo in comune quel che più prezioso hanno (spazi, competenze, relazioni).

Quello che è sempre più evidente è che soggetti con queste caratteristiche sono ormai sparsi su tutto il territorio italiano e che si stanno naturalmente connettendo tra loro, perchè interessati a capire meglio quel che gli accade, acquisire nuovi strumenti, imparare gli uni dagli altri, condividere rischi. Guardate i database di Segnali di Futuro o le mappe di Ashoka e de l’Italia che Cambia, i finalisti a premi come Che Fare o Culturability, e capirete come si stanno piano piano connettendo i puntini. Che cosa produrranno tutti questi scambi?

Diverse etichette sono state utilizzate per descrivere questi processi e questi attori: innovazione sociale è forse quella più abusata.

Al di là della tassonomia c’è una caratteristica fondamentale che accomuna tanto i processi quanto gli attori, la capacità di progettare reti e relazioni e di costruire comunità.

 

L’IMPORTANZA DI IMPARARE A COSTRUIRE COMUNITA’

Costruire comunità collaborative è un vero e proprio mestiere. Forse non si impara sui libri di scuola. Ma di sicuro nelle pratiche più efficaci  si possono osservare alcune costanti, che vale la pena di approfondire.

In particolare, credo che non possano esistere comunità efficaci, nel medio periodo, che non riescano a combinare tra loro mondi ed elementi anche molto diversi.  La mescolanza di culture e visioni deve essere perseguita scientificamente, soprattutto se si vuole dare vita ad una comunità di pratiche in grado di crescere nel tempo. Vi deve quindi essere sempre spazio per la diversità, la sperimentazione e l’ibridazione.

Esattamente come accade quando prepariamo un cocktail, dobbiamo mixare elementi ed ingredienti tra loro anche molto diversi, con l’ambizione di dare vita ad un equilibrio più avanzato, in grado di conquistare anche i palati più esigenti.  Per attivare un gruppo di persone e provare, insieme, a risolvere un problema di natura pubblica, dobbiamo essere in grado di far incontrare e dialogare chi è in grado di esprimere correttamente un bisogno, perché lo vive sulla propria pelle, con chi ha le capacità per trovare delle risposte a quel determinato bisogno.

Dobbiamo tenere insieme chi è in grado di visualizzare una soluzione ed indicare una strada da perseguire, con chi ha la concreta possibilità di agire.  Amalgamare reti corte e reti lunghe, per connettere un dato luogo ad altri luoghi che si stanno ponendo lo stesso problema.

Dobbiamo attivare tanto chi ha tempo ed energie da dedicare ad una causa, quanto chi può mettere sul piatto risorse di diverso tipo (materiali ed immateriali). Dobbiamo riuscire a conciliare interessi e passioni.

L’attivatore di comunità è in questo senso deve avere le stesse qualità di un buon barman: saper ascoltare, saper amalgamare ingredienti molto diversi, saperli interpretare e far dialogare insieme, per dare vita a qualche cosa che prima, apparentemente non c’era, utilizzando degli ingredienti che chiunque potenzialmente aveva a disposizione.

Per riuscire a farlo ci vuole sicuramente una certa attitudine e determinazione, ma soprattutto, come in gran parte delle cose della vita, ci vuole metodo.

Attivare e gestire una comunità di persone, orientarla all’azione e renderla autonoma, in grado di poter perseguire i propri obiettivi nel tempo, richiede infatti alcune accortezze non banali. Innanzi tutto bisogna essere trasparenti nel condividere obiettivi e regole del gioco di una comunità, affinché nessuno si stupisca dei risultati che si stanno raggiungendo o si senta in qualche modo prevaricato.

Solo condividendo in anticipo i criteri ed i valori che orienteranno le azioni di una comunità, possiamo pensare di far crescere una realtà che si auto organizzi mantenendo una certa coerenza. Il problema principale di chi gestisce una comunità è stimolare l’attivazione volontaria dei membri della comunità stessa e aggregarne sempre di nuovi, senza far sentire i primi meno importanti o meno legati alla causa.

Vi è spesso il rischio, a causa di asimmetrie informative e interessi personali, che l’azione collettiva sia orientata a beneficio di pochi o che non raggiunga mai un livello di impatto significativo. Tutte percezioni che inibiscono l’attivazione di energie nuove e fresche, perché nessuno (o quasi) ha particolare piacere a contribuire ad una causa persa o a portare acqua al mulino di qualcun altro (quanto meno senza capire il perché).

Per cui, chi gestisce una comunità di pratiche deve disegnare, come se fosse un apprendista stregone, gli strumenti, i dispositivi e gli incentivi per permettere ai membri presenti e futuri di quella stessa comunità di definire i propri obiettivi e validarli, attivarsi correttamente e sviluppare una spiccata capacità di autocontrollo e rigenerazione.

Il senso dell’azione collettiva deve poter essere costantemente rigenerato, così come le leadership devono costantemente mettersi ed essere messe alla prova. Allo stesso modo, per facilitare l’attivazione e la partecipazione, dobbiamo trovare il giusto equilibrio tra interessi personali e collettivi.

Chi contribuisce ad una causa deve sempre avere la sensazione di contribuire in qualche modo anche alla propria crescita personale e professionale. Solo questo renderà sensata la condivisione di risorse, tempo ed energie.

Da ultimo, dobbiamo essere in grado di non far percepire nessun compito come troppo oneroso o nessun ostacolo come insormontabile. La capacità di parcellizzare una grande missione in tante piccole richieste ed azioni correlate è da questo punto di vista un fattore chiave per stimolare la partecipazione. Così come la capacità di disegnare linee guida e protocolli che abilitino l’attivazione spontanea di persone, all’interno di una stessa cornice di senso.

 

PERCHE’ TUTTO QUESTO HA A CHE FARE CON LE POLITICHE DI SVILUPPO LOCALE?

A cambiare in questi anni non è stata solo la tecnologia. Ad essere cambiate sono proprio le variabili fondamentali in grado di generare sviluppo e benessere.

Viviamo in  un contesto in cui più della disponibilità di capitali e infrastrutture in molti ambiti contano le competenze, la mentalità e  la capacità di gestire relazioni.

Per generare sviluppo, soprattutto in contesti periferici (dove per periferici non si intende solo la provincia italiana ma anche il quartiere degradato all’interno di una grande metropoliti) diventano fondamentali  3 capacità: la capacità di creare nuovi legami (reti corte e lunghe),  quella di liberare energie e  quella ricombinare fattori di natura diversa, generando opportunità.

Ecco quindi che i nostri innovatori sociali assumono, in questa fase, un ruolo centrale nelle politiche di sviluppo a livello locale.

 

IL CONCETTO DI “CITY MAKERS”

Se questo è vero, le esperienze che abbiamo si qui inquadrato andrebbero allora favorire e promosse, creando le condizioni perché attorno ad essere degli ecosistemi si generino.

Lo sta già teorizzando la Commissione Europea, mettendo al centro dell’agenda urbana continentale il concetto di “city makers”, persone ed organizzazioni che innescano dei cambiamenti a livello locale, cercando di affrontare sfide sociali e ambientali in modo semplice e diretto, attivando soluzioni di piccola scala, adattabili ai bisogni della loro comunità.

Il ruolo di questi soggetti va approfondito. Vanno comprese e create le condizioni per una sostenibilità di questa azione. Se il loro ruolo è davvero così importante, non possiamo immaginare che si basino su forme di pseudo volontariato scarsamente retribuito. Se stiamo parlando di soggetti politicamente rilevanti, non ci possiamo non porre il tema del conflitto, facendo finta che in queste pratiche non incarnino esiti o direttrici di sviluppo non neutrali. In questo ambito, ogni azione produce degli effetti: ci sarà sempre qualcuno che guadagna e qualcuno che perde potere. Dobbiamo esserne consapevoli. Sciogliere questi nodi è una sfida che riguarda tutti noi.

 

L’ESPERIENZA DEI BANDI ANCI SU INNOVAZIONE SOCIALE

“Esperimenti” su larga scala come i bandi ANCI su innovazione sociale sono molto importanti perché:

  • se sono ben costruiti riescono a far emergere questi “city maker” (quelli che esistono e quelli potenziali), anche solo perché creano spazi per “i nuovi”;
  • stimolano questi soggetti ad interagire con la pubblica amministrazione, a strutturarsi, a pensare alle loro caratteristiche attuali e future
  • creano delle reti locali e sovra locali di soggetti che poi continueranno naturalmente a dialogare e collaborare, indipendentemente dall’attore pubblico

Sono esperienze importanti anche per la pubblica amministrazione, che ha l’occasione di mettersi alla prova ed imparare:

  • a costruire partnership, tenendo conto delle esigenze che nuove tipologie di partner esprimono;
  • a vivere un nuovo ruolo, quello di piattaforma;
  • a semplificare se stessa ed alcuni dei processi che la caratterizzano, preparandosi ad essere più utile per tutti.

Chi fa innovazione sociale in Italia e lo fa provando ad interagire con la Pubblica Amministrazione si porta sulle spalle una duplice responsabilità: quella di formulare risposta alle grandi sfide Paese che dovremo affrontare e quella di contribuire al ripensamento del concetto di “pubblico”.

Anche di questo dovremmo essere un po’ più consapevoli, per imparare a richiedere con maggiore forza spazi di innovazione e sperimentazione.

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