Innovazione
I big data sono il futuro, anche per l’Italia
Michele Barbera è il CEO di SpazioDati, startup dietro Atoka. Questo post è sponsorizzato da:
I dati contano, specie in un mondo sempre più connesso. Perché ormai attraverso le frontiere non passano più solo beni o servizi, ma pure dati: sotto forma di informazioni, ricerche, video, acquisti online, messaggi e così via. Lo spiega bene un report appena uscito del McKinsey Global Institute, dal titolo (abbastanza eloquente) “Digital globalization: the new era of global flows”. Il giornalista Stefano Carli, che il report lo ha letto, su Affari & Finanza giustamente scrive “nell’era della globalizzazione digitale il valore di un’economia si misura dal valore dei suoi flussi: non più solo beni e servizi ma anche dati. Perché i dati creano ricchezza. Anzi, sono ricchezza”.
Ora, è chiaro che stiamo assistendo a un passaggio epocale. La rivoluzione delle ICT diventa sempre più una rivoluzione a 360°, che non si limita a trasformare solo le tecnologie (seppur con effetti strabilianti) ma anche le economie, le società, i commerci e la vita quotidiana. E dunque i dati diventano per il XXI secolo ciò che il petrolio è stato per il XX secolo, sboccia quella che un super-analista della Gartner definisce “l’economia dell’algoritmo”, e i flussi di dati iniziano a plasmare lo scenario geopolitico e geoeconomico globale. È una nuova corsa all’oro, in una nuova, promettentissima terra di frontiera.
Nel suo report il McKinsey Global Institute mette in fila qualche dato. Per esempio: dal 2005 a oggi l’uso transfrontaliero di banda è aumentato di 45 volte, e dovrebbe aumentare di altre 9 volte nei prossimi cinque anni. Circa il 12% di tutto gli scambi globali di beni avviene grazie all’e-commerce, e più dell’80% delle startup tecnologiche ha natura globale. Ancora, grandi piattaforme digitali come Amazon, eBay, Facebook e Alibaba non soltanto abbassano i costi internazionali di transazione e interazione, ma creano nuovi mercati e comunità, e consentono la nascita di micro-multinazionali a vocazione internazionale.
Il mondo analogico e quello digitale si compenetrano sempre di più, generando – come dice un amico scrittore – un mondo digilogico, dove la realtà fattuale colonizza gli spazi digitali, e viceversa. Ecco allora la crescente importanza dell’IoT, il boom dei visori virtuali, l’enorme peso finanziario di colossi digitali come Apple, Google e Amazon. Il punto, però, è che non tutti possono approfittare di queste nuove opportunità. Un’economia ne può trarre vantaggio solo se è super-connessa. Ossia se può contare su una forza lavoro digitalmente alfabetizzata, e se dispone sia di buone infrastrutture analogiche, come aeroporti e linee ferroviarie veloci, sia di infrastrutture digitali all’altezza.
Ecco perché i capoccia del McKinsey Global Institute hanno elaborato il MGI Connectedness Index, che misura “quanto i paesi partecipano ai flussi (inflows e outflows) di beni, servizi, finanza e dati”. Scorrere quest’indice è una lettura interessante, per vari motivi: 1) emerge la crescente rilevanza dei cosiddetti “paesi emergenti” 2) si capisce che le dimensioni contano, ma solo fino a un certo punto 3) è chiaro come le rendite di posizione si stiano disintegrando.
Il paese più connesso al mondo è, sorpresa, Singapore. La città-stato del Sudest asiatico è da sempre consapevole dell’importanza di essere connessi, date le sue origini di porto-franco ed emporio dell’Impero britannico, e oggi è un hub globale altamente competitivo che attira FDI (Foreign Direct Investments) e i migliori talenti del pianeta, ha un ruolo importante nei flussi finanziari asiatici, e investe in modo massiccio nelle nuove tecnologie. Al secondo posto ci sono poi i Paesi Bassi, un’ex potenza marittima dotata di importantissimi porti (su tutti quello gigantesco di Rotterdam, dove approdano ogni anno più di 30mila navi oceaniche), che negli ultimi anni si è trasformata nel principale snodo del traffico europeo di dati.
Terzi nella classifica del McKinsey Global Institute sono gli Stati Uniti, e questo piazzamento ovviamente non stupisce, considerando che è il secondo mercato del pianeta, che i colossi digitali citati sopra sono tutti nati in America, e che i flussi transfrontalieri di dati da Europa, Oceania, Asia e America Latina hanno come principale sbocco proprio gli Stati Uniti (ma il Medio Oriente e l’Africa sono più integrati con il Vecchio continente). Quarta è la Germania, che è il principale partner commerciale di gran parte dei paesi europei, vanta una rete di infrastrutture analogiche d’eccellenza (dai porti di Amburgo e Brema agli aeroporti e alle celebri Autobahnen) ed è (quasi come i Paesi Bassi) un importantissimo hub del traffico di dati.
Quinta è l’Irlanda, grazie al suo ruolo di piazza finanziaria e di servizi, tallonata dal Regno Unito, che è sesto, soprattutto per merito di Londra, che è la prima città del mondo quanto a partecipazione ai flussi finanziari globali, seconda nell’ambito dei dati e della comunicazione, terza per quanto riguarda persone e servizi. Nell’indice del McKinsey Global Institute appaiono poi, nell’ordine: Cina, Francia, Belgio, Arabia Saudita (!), Emirati Arabi Uniti, Svizzera, Canada, Russia, Spagna, Corea del Sud e, finalmente, al diciassettesimo posto, l’Italia, che supera di un soffio la Svezia e precede due nazioni molto diverse tra loro come l’Austria e la Malesia.
È evidente che il nostro paese deve fare di più, se vuole continuare a essere l’ottava economia più forte del mondo e la nona potenza commerciale globale. Perché il grado di connessione di un paese lo rende molto più ricco e influente di quanto non sia: Singapore, pur avendo un PIL di “appena” 300 miliardi di dollari, riesce a muovere flussi per quasi 1,4 trilioni di dollari; i Paesi Bassi, che hanno un PIL di 854 miliardi di dollari, di miliardi ne muovono oltre 1800.
In quanto poli digilogici, paesi piccoli o molto piccoli come i due appena citati, l’Irlanda, il Belgio o gli Emirati Arabi Uniti contano di più. Anche grazie ai dati. È il caso della Svezia, che ha un grado di connessione quasi pari a quello dell’Italia proprio grazie al suo essere il quinto hub mondiale dei dati. Nel paese scandinavo stanno moltiplicandosi le startup e le aziende legate all’industria dei dati (una delle Industries of the future di cui parla Alex Ross nel suo ultimo saggio). Anche in Italia sono nate o stanno crescendo nuove realtà produttive: noi di SpazioDati ad esempio, con il nostro Atoka, ma naturalmente non siamo gli unici. La strada da percorrere però è ancora lunga. Molto lunga.
Michele Barbera, autore dell’articolo, è il CEO di SpazioDati
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