Innovazione

Maker Faire: quanti sono e dove lavorano gli artigiani digitali e i makers

13 Ottobre 2016


Michele Barbera è il CEO di SpazioDati, startup dietro Atoka. Questo post è sponsorizzato da:

spaziodati




In questi giorni i media stanno parlando molto di Makers. La cosa non mi stupisce, dato che la Maker Faire è ormai alle porte. Ma non si tratta di semplice chiacchiericcio, dell’ennesima buzzword fine a se stessa. In Italia, paese dalla storica vocazione artigiana e manifatturiera, i Makers sono un fenomeno concreto, tangibile. Che ha contribuito a generare a livello grassroots una nuova cultura del saper fare, e che si è saputo contaminare con PMI manifatturiere, botteghe artigiane, fablab e studi di design. In sintesi, è roba seria.

Di Makers (e Artisan Valley) mi ero occupato in questo blog vari mesi fa. Qualche giorno fa però, sollecitato pure da un’email di un lettore di Bologna, ho provato a vedere cosa dicono le aziende italiane a riguardo. Facendo qualche scoperta divertente e, penso, anche un pochino interessante.

Secondo quanto si ricava con Atoka (il nostro tool di lead generation e sales intelligence), sono 354 le aziende italiane a menzionare la “Maker Faire” nel proprio sito web. Si tratta di aziende della provincia di Roma (101), ma ci si imbatte pure in imprese milanesi (31), riminesi (16), torinesi (15), bolognesi e veneziane (9 per ciascuna provincia), baresi (7) e via discorrendo. Guarda caso, a guidare la classifica sono province a economia avanzata, spesso con una rilevante tradizione industriale e/o artigiana, e magari proiettate in modo più o meno spinto verso l’ormai mitica knowledge economy.

Tra le aziende che citano la Maker Faire 175 sono srl, 18 addirittura spa, e un bel po’ sono startup innovative (48, per la precisione). Nel novero dei “menzionanti” vanno incluse anche 4 fondazioni, 2 cooperative sociali e un istituto religioso… un interesse diffuso dunque, quasi ecumenico, capace di andare oltre i soliti vecchi steccati.

Può essere poi interessante scoprire i business di queste 354 aziende: spiccano il settore dei servizi di informazione e comunicazione (89) (incluse una quarantina di ditte attive nella produzione di software, consulenza informatica e attività connesse) e quello delle attività professionali, scientifiche e tecniche (87), mentre il manifatturiero arriva “solo” al terzo posto (63).

Chiariamo: io non sono un economista. Però mi sembra degno di nota che la Maker Faire interessi sia a realtà del mondo digitale, sia a imprese di natura più industriale e “fisica”. È un indizio della contaminazione di cui scrivevo sopra. E anche, se vogliamo, la speranza di una crescente maturità del nostro sistema produttivo, capace di generare quelle sintesi virtuose che forse saranno una della cifre dei prossimi decenni. Un new normal dove parole oggi assai in voga (ma poco praticate) come contaminazione e interdisciplinarità diventeranno prassi tanto consolidate quanto banali.

Dopo Maker Faire ho voluto poi buttare l’occhio su un altro concetto-chiave del nuovo lessico manifatturiero italiano: quello degli “artigiani digitali” teorizzati dall’economista veneziano Stefano Micelli, guru dei Makers italiani nonché autore di un saggio, “Futuro artigiano”, che in questi anni ha ispirato tantissimi startupper, creativi e imprenditori.

Ebbene: in tutta Italia sono 171 le aziende che menzionano gli artigiani digitali nei propri siti; si tratta soprattutto di imprese con sede legale nella provincia di Milano (19) e Roma (15), ma figurano anche Torino e Treviso (7 a testa), Napoli (6), Bergamo, Verona e Vicenza (5 per ogni provincia) ecc… Nord sud ovest est, per citare una canzone di moda ai miei tempi, ma con una prevalenza delle regioni settentrionali: la Lombardia al primo posto (33), seguita dal Veneto (28) e, un po’ più a distanza, dall’Emilia-Romagna (21); il Lazio al quarto posto, e così via.

Le aziende che citano gli “artigiani digitali” sono, soprattutto, srl (72), ma al terzo posto, dopo le imprese individuali (22), vengono le cooperative (12). Molte di queste imprese sono realtà attive nel settore dell’informazione e della comunicazione (44) (a cominciare da 25 aziende impegnate nella produzione di software ecc…) o nel settore delle attività professionali, scientifiche e tecniche (43) (e in questo caso si tratta ad esempio di designer); è presente però anche un gruppo di imprese manifatturiere (18), ad esempio costruttori di mobili e bici.

In ogni caso, sembra che il concetto di “artigianato digitale” abbia attecchito proprio nei tre settori di cui Micelli auspicava la convergenza: il design, il digitale e il manifatturiero più artigianale, orientato alla qualità e al “su misura”. Presente, passato e futuro si saldano, dando vita a quella che potrebbe essere una via tutta italiana verso la Terza rivoluzione industriale (di cui The Economist scriveva già nel 2012, parlando di «manufacturing going digital»).

Dopodiché ho voluto sapere cosa dicessero le aziende italiane dei “fablab”, realtà che vivendo in Trentino ho imparato a conoscere bene (basti dire che un fablab sorge al MUSE, il Museo delle scienze progettato da Renzo Piano a venti metri dagli uffici trentini di SpazioDati). La parola “fablab” è presente nei siti web di 621 aziende italiane. Si tratta soprattutto di imprese milanesi (76) e romane (48) ma si incontrano anche in aziende torinesi (27), bolognesi (20), fiorentine (19), napoletane (18), trevigiane (17) e via discorrendo. A livello regionale conduce la Lombardia, as usual, con 123 aziende; al secondo posto (ma non molto vicino) c’è il Veneto (82), al terzo l’Emilia-Romagna (76) ecc… Come nel caso degli artigiani digitali, anche qui spicca il nord, specie la Lombardia e il Nordest allargato.

Anche qui ci tengo a dare i numeri: 160 delle aziende che parlano di fablab operano nel settore delle attività professionali, scientifiche e tecniche; 132 sono attive nei servizi di informazione e comunicazione; 78 lavorano nel manifatturiero e 52 operano, new entry di cui però non c’è troppo da stupirsi, nell’istruzione. Altro numeretto interessante: 59 aziende sono classificate come startup innovative (inclusi quelli che sono dei fablab a tutti gli effetti).

Ma i fablab, gli artigiani digitali e la Maker Faire stessa non esisterebbero senza la rivoluzione del digital manufacturing. Che è figlia, a sua volta, di una rivoluzione ancora più significativa: quella delle ICT. Digital manufacturing, a sua volta, fa rima con tecnologie ormai di casa in ogni azienda manifatturiera tricolore che si rispetti: ad esempio la stampa 3D, i laser cutter, i laser scanner ecc…

Partiamo dalla tecnologia più emblematica di tale fenomeno, l’ormai arcinota “stampa 3D”. Questa tecnologia caratterizza, semanticamente, 616 imprese italiane. 64 di esse hanno sede legale in provincia di Milano, 38 in quella di Roma, 35 nel torinese, 18 sia nel trevigiano che nel bolognese; seguono la provincia di Bari, quella di Vicenza e di Firenze (17 ciascuno), il napoletano (15), il bresciano e il padovano (13) ecc… A livello regionale la classifica è la seguente: Lombardia (130), Emilia-Romagna (73), Veneto (70), Piemonte (54) e così via.

Gran parte di queste aziende sono srl (284) o imprese individuali (115), tutte hanno meno di 250 dipendenti (in realtà solo una ha più di 100 dipendenti: un’azienda leader nella produzione di sistemi per il taglio). Anche la distribuzione per area di attività è interessante: 197 operano nel manifatturiero, 149 nel commercio (o nella riparazione di veicoli), 102 svolgono attività professionali, scientifiche e tecniche, 86 sono nei servizi di informazione e comunicazione.

Dal punto di vista semantico, “stampa 3D” si trascina dietro altre parole degne di nota, come “prototipazione rapida” (e in effetti le prime aziende a dotarsi di questa tecnologia sono state proprio quelle impegnate nella realizzazione di prototipi), “scanner 3D”, “fabbricazione digitale”, “produzione additiva”, “modellazione 3D”, “3D Systems”, “progetto RepRap” ma anche “stereolitografia”, “Arduino”, “open design”.

Un’altra tecnologia molto rappresentativa del digital manufacturing, si diceva prima, è quella dello “scanner 3D”. Le aziende caratterizzate semanticamente da questa parola sono, in tutta la Penisola, 72. In questo caso emerge in modo più marcato il centrosud, e questo non può che rallegrarmi, dato gli immensi giacimenti di talento, imprenditorialità e immaginazione custoditi nel nostro Mezzogiorno: 7 di queste ditte hanno infatti sede legale in provincia di Bari, 5 nel bolognese, 4 nel bresciano e altrettante in provincia di Roma e Treviso, e via dicendo.

Abbastanza variegati i settori in cui operano queste 72 aziende: 20 sono nel manifatturiero, altrettante nel settore delle attività professionali, scientifiche e tecniche, 19 nel commercio (e riparazione di veicoli) ecc… Una tecnologia duttile, che piace sia allo studio di architettura di Floridia (Siracusa) che al commerciante di articoli medicali e ortopedici di Milano, passando per il fabbricante di molle in provincia di Lecco o all’azienda di sistemi 3D con sede a Pianiga (Venezia).

Anche “scanner 3D”, come “stampa 3D”, si trascina tutta una serie di parole legate al lessico innovativo dei Makers e del nuovo manifatturiero: si inizia con “3D Systems” (il colosso statunitense delle stampanti 3D), e si continua con “stampa 3D, MakerBot Industries, reverse engineering, prototipazione rapida, modellazione 3D, agrimensura, CAD ecc…” Insomma, un lessico eterogeno, frutto di un mix inedito di pratiche tecniche, aziende all’avanguardia, tecnologie… Un’eterogeneità, del resto, che sembra essere la cifra di un mondo (quello degli artigiani digitali) in piena, vitalissima espansione.

 

Michele Barbera, autore di quest’articolo, è il CEO di SpazioDati. L’opera in copertina è “Tornio e telaio”, del pittore Fortunato Depero.

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