Innovazione
Cucchiai anti-pesticidi, abiti d’acciaio e stampa 3D: arrivano i tecnodesigner
Si consideri Spoon, “cucchiaio” high-tech che rileva i pesticidi presenti nella verdura a bagno nell’acqua, e che suggerisce quanto ancora bisogna lavarla prima di portarla a tavola. Lo ha inventato il designer torinese (ma marchigiano d’adozione) Massimo Marcelli, che a Gli Stati Generali spiega: «Il mio design cerca sempre di associare il prodotto a una funzione. E del resto mi rifaccio a una concezione di design che vede nell’oggetto qualcosa che migliora la vita delle persone. Nel caso di Spoon, lo scopo è pure quello di promuovere forme di consumo sostenibile sia per l’ambiente che per gli esseri umani».
Marcelli ha anche creato un pigiama che rilascia un integratore naturale utile a smaltire l’acido lattico accumulato facendo sport, nonché due pentole speciali per cucinare con più efficacia delle ricette regionali. Lo si potrebbe considerare un tecnodesigner, e infatti lui conferma: «Il mio è un pensiero semplice. Cerco di interpretare i bisogni della società, delle persone, e di creare dei prodotti adeguati a tali bisogni. La tecnologia senz’altro aiuta».
La verità è che i tecnodesigner sono tra noi. E stanno cambiando il nostro modo di concepire il rapporto tra tecnologia ed estetica, forma e funzione. Rimettendo al centro l’essere umano, con le sue necessità, fragilità e velleità. Con loro si moltiplicano in tutta Europa makers, fixers, artigiani digitali ecc… Un brodo di coltura composto da figure diverse, ma accomunate da una filosofia all’insegna dell’anti-reificazione. Non solo della persona e dell’ambiente, ça va sans dire, ma degli oggetti. Un caso banale ma eloquente: perché mai buttare via un’ottima sedia della nonna solo perché ha una gamba rotta? Basta riparare la gamba, o sostituirla con un tubo in fibra di carbonio, o trasformare la sedia in qualcos’altro…
Tanti i nomi sotto il sole. Per esempio la celeberrima Iris van Herpen, fashion designer dei Paesi Bassi che ad appena 33 anni ha già rivoluzionato la moda coniugando saper fare “tradizionale”, materiali insoliti come l’acciaio o il Plexiglas e l’utilizzo di tecnologie quali la stampa 3D. Nel 2015, al Palais de Tokyo, la van Herpen ha lasciato tutti di stucco con una collezione ispirata all’idea (visionaria) del terraforming, processo futuristico e futuribile per rendere abitabile un pianeta. Oppure si pensi a un conterraneo della van Herpen, Dirk Vander Kooij, visionario designer di Amsterdam “che crea mobili, sedie, tavoli e lampade attraverso processi di pressatura e di riscaldamento, artigianato e stampa 3D” (ad esempio un tavolino indistruttibile, fatto di plastica residuale riciclata).
«Il compito di noi designer è umanizzare le tecnologie, fungere da ponti, da traduttori, tra la tecnologia e l’utente». A dirlo è Venanzio Arquilla, docente della Scuola di design del Politecnico di Milano e professore associato presso il dipartimento di design dello stesso. Non a caso si parla di user experience design, e si invoca il design thinking come strumento per colmare i gap tra discipline, come l’ingegneria e l’economia. «Ci si domanda se il designer debba, ad esempio, saper programmare, o fabbricare oggetti, o essere in grado di utilizzare Arduino – continua Arquilla –. Probabilmente sì, deve farlo, almeno un po’. E gli ingegneri, da parte loro, stanno riconoscendo sempre di più il valore del design».
Il docente elenca alcuni nomi di tecnodesigner emergenti. Come Joris Laarman, neerlandese di 37 anni che alla periferia di Amsterdam ha creato lo Joris Laarman Lab, fucina di creatività post-moderna dove artigiani, ingegneri e scienziati collaborano utilizzando frese a controllo numerico, stampa 3D, robotica ecc…
O come il polacco Michal Piasecki, «designer parametrico e imprenditore affascinato dalle potenziali interazioni tra design generato algoritmicamente, digital manufacturing distribuito e internet delle cose». Tra i suoi lavori, la partecipazione all’attività di design computazionale per la produzione della prima sedia in serie di microstrutture, stampata in 3D in poliuretano termoplastico. Piasecki è anche il co-fondatore di Tylko, startup con l’ambizioso obiettivo di contribuire alla digitalizzazione dell’industria del mobile.
In effetti le startup sono uno dei vettori preferiti dai tecnodesigner. Non solo nel Nord Europa, ma anche più a sud. Ad esempio in Italia. È il caso della startup Orange Fiber, acquartierata in quel di Rovereto. Fondata da due ragazze siciliane, la giovanissima azienda produce tessuti innovativi usando il “pastazzo”, ovvero cioè il residuo della produzione industriale di succo di agrumi. Il loro primo cliente è stata una delle maggiori maisons nostrane.
«Quella tra nuovi materiali, nuove tecnologie e fashion design è un’alleanza vincente. Ed è la strada più bella che possa intraprendere il Made in Italy per svilupparsi – spiega Enrica Arena, co-fondatrice di Orange Fiber –. Già esiste un fortissimo posizionamento per quanto riguarda qualità e know-how, ma se riusciamo a coniugare questo con la creatività, l’innovazione nei materiali e soprattutto la sostenibilità, possiamo davvero continuare a fare la differenza nel mondo della moda».
Daniele Lago è amministratore delegato e direttore creativo della Lago, azienda di mobili del padovano che ha fatto parlare di sé per la sua “Talking Forniture”, degli arredi capaci di dialogare con gli smartphone delle persone attraverso la tecnologia NFC. «Io mi considero un abilitatore, e mi piace usare il design in modo olistico – dice Lago –. Oggi è praticamente impensabile pensare al futuro senza ricordarci che abbiamo uno smartphone quasi sempre in mano, e che i bit sono diventati protagonisti nelle nostre vite. Ecco perché l’interazione tra bit e atomi avrà sempre più a che fare con il design, ed ecco perché sarà sempre più necessario un background di tipo umanistico da parte dei designer per rendere intelligenti le tecnologie, cosicché gli esseri umani ne possano poi trarre benefici sostanziali».
Tra le parole-chiave di questo nuovo design all’insegna della contaminazione tra saperi “duri” e saperi “soffici”, know-how, competenze e sensibilità diverse, ci sono interdisciplinarietà e multidisciplinarietà. Lo conferma il designer e docente Simone Simonelli, co-fondatore dello studio AM design office di Bolzano, che lavora anche con imprese e startup innovative. «Il nostro studio è composto da designer e non-designer. Di designer ce ne sono tre, gli altre sono rispettivamente un informatico, un esperto di business e un’esperta di psicologia e marketing. Insomma, siamo davvero molto multidisciplinari, proprio perché consapevoli che un designer, per quanto versatile, non può fare tutto da solo; è una leggenda».
Non è una leggenda invece il dialogo con le nuove tecnologie, ad esempio quelle del digital manufacturing, come la stampante 3D. Fondamentali non solo per lavorare, ma per imparare. Ai workshop organizzati da Simonelli alla Libera Università di Bolzano, ad esempio, gli studenti hanno imparato a recuperare oggetti usando proprio la famigerata stampa 3D. L’ennesimo modo per trasformare la tecnologia non in uno scopo ultimo, fine a se stesso, ma in un’alleata funzionale a un nuovo stile di vita.
In copertina: Jakov Černichov, Fantastic compositions, 1929-1931, composition 73
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