Innovazione
Competenze: l’esigenza di un continuo aggiornamento
La velocità del cambiamento si è imposta, in pochi anni, come cifra distintiva di questo inizio millennio.
Fino a non molto tempo fa, chi fosse riuscito ad imparare un “mestiere” avrebbe potuto affrontare il futuro con una certa tranquillità, consapevole che il tempo non avrebbe stravolto, bensì affinato le competenze di base già acquisite.
Il know how appreso poteva perfino essere trasferito di generazione in generazione, sicché l’esperienza dell’anziano costituiva, per il giovane, un essenziale punto di riferimento, se non un traguardo da raggiungere e superare.
Si tratta di un quadro sensibilmente mutato, che ha visto, in pochi anni, molti lavori estinguersi ed altri sorgere dal nulla, mentre la maggior parte delle professioni, costretta ad inseguire i cambiamenti rapidissimi della società, si scopre obbligata a reinventarsi di continuo.
Una perpetua riprogrammazione che si traduce nel costante apprendimento di nuove competenze, quindi formazione continua e aggiornamento.
Di questa esigenza, le imprese italiane sembrano essere perfettamente consce.
Un recente studio del Politecnico di Milano testimonia come oltre il 60% delle intervistate consideri la formazione come un fattore determinante per il raggiungimento dei propri obiettivi, nonché essenziale per svilupparsi e crescere, mentre solo il 6% la ritiene del tutto irrilevante.
È sensibilmente cresciuto il numero di realtà che, alla ricerca di una formazione di qualità, ha scelto di rivolgersi a soggetti specializzati, società di consulenza nate proprio per intercettare queste richieste e rispondervi in modo professionale ed efficace.
Alle società di consulenza, leader del mercato della formazione, sono affiancate le academy create dalle grandi imprese e, seppure in misura minore, le business school ed alcuni specifici programmi universitari.
La tecnologia, in un contesto ulteriormente accelerato dalla crisi pandemica, ha fortemente inciso sulle modalità di erogazione del sapere, anche grazie alla capillare diffusione di devices multimediali, allo sviluppo di sofisticate piattaforme specificamente dedicate, e al numero crescente di nativi digitali entrati nel mondo del lavoro.
Le tradizionali aule e le sale convegni sono state affiancate dai modelli ibridi e da quelli virtuali, che oggi permettono la partecipazione da remoto o asincrona, a platee potenzialmente molto più vaste rispetto al passato.
Si stima che entro il 2025 il mercato mondiale della Education Tecnology potrebbe arrivare a valere oltre 400 miliardi di dollari, in netta crescita rispetto ai circa 90 miliardi del 2020.
La realtà virtuale e l’intelligenza artificiale accelereranno lo sviluppo di piattaforme di adaptive learning, in grado di fornire al singolo fruitore una formazione focalizzata sulle reali esigenze del momento.
In questo contesto, lo smart working è diventato uno dei temi formativi maggiormente richiesti, insieme al digital transformation, lean thinking e diversity and inclusion.
L’interessante studio condotto dal Politecnico di Milano rivela anche cosa si aspettano le imprese dalla formazione: l’aggiornamento professionale del personale (quasi per l’84% delle intervistate), la capacità di adeguamento ai cambiamenti del mercato ed al progresso tecnologico, ma anche l’acquisizione di uno strumento in grado di attrarre nuovi talenti da inserire nei propri organici e utile a trattenere quelli già in forze (percentuale che si assesta oltre il 56%).
Per un potenziale talento da reclutare riveste un’importanza non secondaria, rispetto al mero riconoscimento economico, la possibilità di inserirsi in un percorso formativo di qualità, efficace e ben strutturato, che gli permetta di crescere professionalmente, migliorare le proprie competenze ed acquisire nuove skills.
Fortunatamente, solo una parte minoritaria delle imprese che hanno partecipato alla ricerca afferma di considerare la formazione come un semplice premio da attribuire al proprio personale (il 23% contro il 77%).
Un simile approccio, difatti, ottusamente misconosce che chi beneficia per primo dei progressi del lavoratore sia proprio chi ha avuto l’accortezza di investire nella sua crescita professionale.
L’elevata percentuale delle realtà che si riconosce soddisfatta della formazione ricevuta (quasi il 90%), dimostra che i servizi resi nel nostro Paese siano di buon livello, capaci di raggiungere i target individuati.
Un dato interessante attiene la percentuale di imprese che dichiara di ricorrere alla formazione anche per innescare, nel proprio personale, un cambiamento di natura culturale (circa il 64% degli intervistati).
Si tratta di una visione in linea con i trend del pensiero attuale, alla ricerca costante di uno sviluppo green ed ecosostenibile.
Anche grazie alla formazione, difatti, la nostra economia cerca di incidere sullo stile di vita degli individui, muovendo sempre più decisamente verso la razionalizzazione delle risorse disponibili, la riduzione dei consumi e la lotta agli sprechi.
La realtà rappresentata dallo studio del Politecnico di Milano fotografa un contesto sensibilmente diverso rispetto a quello che, senza spostarsi troppo nel tempo, avrebbe caratterizzato anche solo il decennio scorso.
Il nostro mondo del lavoro, ancora di più rispetto al passato, non permette di vivere di rendite.
Non rendersi disponibili al continuo aggiornamento delle proprie conoscenze significherebbe, semplicemente, rimanere indietro, nell’incapacità di stare al passo con il cambiamento.
Non è detto che questa velocità piaccia o che questo contesto sia il migliore dei possibili, ma tant’è, e finché lo scenario di fondo sarà questo, servirà adeguarsi.
L’alternativa sarebbe l’alimentazione di forme di divario (culturale, generazionale, geografico), ancor più evidenti rispetto a quelle conosciute dal recente passato.
Forme di divario, in tutta onestà, che il nostro Paese non si può permettere.
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