Innovazione
Come cambia il sindacato: parola ad Andrea Donegà (FIM-CISL)
Continua la serie di articoli che Yezers dedica al mondo del lavoro. Dopo aver sviluppato una riflessione focalizzata in particolare sui giovani con Luca de Vecchi e Davide De Luca, rispettivamente avvocato giuslavorista e giornalista, e aver affrontato il tema dell’innovazione digitale con Alessandro Giaume, manager esperto del settore, abbiamo voluto approfondire come il sindacato stia rispondendo agli enormi cambiamenti in atto in questi anni. Ne abbiamo discusso con Andrea Donegà, segretario generale della FIM Lombardia, l’organizzazione dei metalmeccanici della CISL guidata a livello nazionale da Marco Bentivogli.
Il sindacato è spesso percepito come piuttosto rigido nei confronti dell’innovazione, anche perché più associato al mondo della politica che non dei lavoratori, dell’impresa e, quindi, del lavoro più in generale. Troppe volte però, spiega Donegà, sono state attribuite al sindacato troppe colpe e responsabilità indicandolo come fattore frenante e ostacolante rispetto allo sviluppo del Paese, senza tuttavia voler auto assolversi. Contrariamente a questa percezione e partendo da un’analisi autocritica, la FIM-CISL non teme, e non ha mai temuto, i cambiamenti, studiandoli, prevedendoli e costruendo interventi per ridurre i rischi e massimizzare le opportunità per le persone e per il lavoro (e in questo appare assolutamente in linea con quanto affermato da Alessandro Giaume).
Come ben noto, il tema dei temi in Italia è la bassa produttività, che si traduce nell’impossibilità di alzare i salari, di liberare risorse per gli investimenti, condannando il Paese al rischio di finire ai margini delle catene globali del valore. Le (nuove) tecnologie sarebbero però in grado di risolvere alcuni nodi che ingessano l’odierna performance economica del Paese, ma non solo: queste potrebbero anche – e a prima vista paradossalmente, in quanto luogo comune è che più tecnologie significhi meno posti di lavoro – aiutare ad umanizzare il lavoro, liberando la creatività. Ma come? Secondo il World Economic Forum, il 62% dei bambini che hanno iniziato le scuole elementari nel 2017 avranno incarichi lavorativi di cui non conosciamo nemmeno il nome, a prova del cambiamento epocale dettato dalla velocità dei processi a cui siamo di fronte. Per questo, la chiave del problema è, ancora una volta, anticipare il cambiamento per poter beneficiare dei suoi vantaggi e delle opportunità che questo porta con sé per il mondo delle aziende, così come per quello dei lavoratori.
Per fare ciò bisogna però rivedere in toto il sistema scolastico, che ad oggi (perlomeno su alcune professionalità, non volendo generalizzare) non offre l’educazione necessaria al fine di sviluppare le competenze di cui le imprese hanno bisogno. C’è dunque necessità di un allineamento di fondo tra il mondo della scuola e quello del lavoro, che passa attraverso non solo il sistema scolastico convenzionale, ma anche l’insieme dei corsi di formazione che siano il più possibile coerenti con le traiettorie di sviluppo delle aziende. È questo lo scopo della conquista, nel contratto dei metalmeccanici, del diritto soggettivo alla formazione per tutti i lavoratori. Dobbiamo cominciare a dire che le imprese che non curano il capitale umano debbano essere trattate come le imprese che inquinano in quanto producono esternalità negative con danni alle persone, alla collettività e al mercato del lavoro che finisce per impoverirsi di competenze. Queste imprese perdono competitività e solidità e, quindi, occorre favorire fiscalmente quelle che investono su formazione e capitale umano e penalizzare, invece, le altre.
La questione della produttività è però anche legata alla competenza dei lavoratori e al rapporto domanda-offerta di questi ultimi con i bisogni delle aziende: in Italia esistono infatti moltissime persone over-skilled, ossia dotate di competenze superiori rispetto a quanto richiesto dall’attività lavorativa (laureati, ma non necessariamente), in quantità di gran lunga superiore al numero netto di posti di lavoro che le imprese sono capaci di offrire. Questo dimostra che il mondo aziendale sia ancora troppo indietro e troppo lento nel percorso verso il raggiungimento dell’obiettivo rispetto alla velocità dei cambiamenti in atto. Ne conseguono i cervelli in fuga, il sempre minor investimento nell’istruzione scolastica e nella formazione professionale, l’aumento inarrestabile del gap con gli altri Paesi.
In mezzo, tra gli altri, affiora il mondo della politica e, ad esso legato, quello della comunicazione all’interno della politica. Il “plebiscitarismo social” che abbiamo sperimentato con il precedente governo – ma che in generale sembra un tratto caratteristico dei tempi, anche all’estero – rischia infatti di scavalcare i corpi intermedi o, ancor peggio, di renderli inefficaci, raggiungendo direttamente, e senza filtri, l’elettore (ancor prima del “cittadino”). Ma il fatto che tutti parlino di tutto, il che in qualche modo presuppone che tutti siano competenti su tutto, eleva a valore l’incompetenza. Il sindacato, invece, aggrega e organizza le persone per farle contare di più all’interno dell’azienda, anche svolgendo il ruolo di promotore di una consapevolezza culturale. E il sindacato, seppur abbia commesso innegabilmente molti errori dalla sua creazione ad oggi, si vede al margine di un contesto che, invece, avrebbe più bisogno di quanto pensi del sindacato stesso, di un sindacato in grado di innovare mezzi e metodi della rappresentanza, di cambiare linguaggio e di allargare il proprio orizzonte. Sebbene esistano ancora molti lavoratori che fanno riferimento ai sindacati come organo di rappresentanza, in base al tipo di valore da tutelare – che vedono nella solidarietà, antirazzismo e antifascismo, e non nell’incompetenza, la colonna portante del sindacato, che lo rende insostituibile tra tutti – molti si rivolgono ad altri enti o associazioni.
Cosa fare dunque in Italia? Innanzitutto, sciogliere i nodi che impediscono alle persone di fare impresa – ancora molti nel nostro Paese – fondamentale per creare sviluppo ed aumentare la produttività mettendo il lavoro al primo posto, e non puntare come sempre su sussidi e aiuti economici capaci di affrontare il problema solo in superficie. Per proteggere e far evolvere i diritti di oggi bisogna avere il coraggio di trovare risposte nuove in questi scenari inediti, pena arretrare sul piano della dignità ed emancipazione. Continuare a interpretare la realtà e il lavoro con schemi mentali e giuridici di alcuni decenni fa rischia di portarci fuori strada. Infine, occorre iniziare a ragionare a livello di Europa e a capire che, sul fronte nazionale, politica industriale e politica estera sono strettamente legate.
Giulia Lizzi
Redazione di Yezers
Samuel Carrara
Responsabile Editoriale di Yezers
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