Innovazione

WordPress e i suoi fratelli, ecco i CMS più usati dalle imprese

12 Febbraio 2016

 

Michele Barbera è il CEO di SpazioDati, startup dietro Atoka. Questo post è sponsorizzato da:

spaziodati

 

In questo post vorrei parlare dei CMS. Da non confondere con il CSM, il Consiglio superiore della Magistratura, come fa un mio amico laureato in giurisprudenza. Un CMS è l’acronimo in inglese di Content Management System, ossia Sistema di Gestione dei Contenuti. Si tratta, in poche parole, di “uno strumento software, installato su un server web, il cui compito è facilitare la gestione dei contenuti di siti web, svincolando il webmaster da conoscenze tecniche specifiche di programmazione web”.

I CMS consentono anche a chi non sa programmare in HTML di gestire un sito, ad esempio aggiungere contenuti, rimuoverne altri, apportare delle modifiche a una pagina e via dicendo. E in effetti sono davvero tante le aziende italiane che utilizzano i CMS per i loro siti. Questo è vero soprattutto per le PMI con limitate esigenze di comunicazione e marketing, che usano il loro sito sostanzialmente come “vetrina”. In realtà anche le grandi aziende usano i CMS, specialmente quando si trovano a gestire una pluralità di siti, spesso per ragioni di marketing.

Usando il nuovo filtro CMS del nostro strumento di sales intelligence Atoka, qualche giorno fa noi di SpazioDati ci siamo divertiti a vedere quali sono i tipi di CMS più diffusi tra le aziende italiane (era un lunedì pomeriggio uggioso, fuori faceva freddo, e o facevamo questo oppure ci toccava tornare a lavorare). Sono venuti fuori dei risultati interessanti. Sul pool di aziende che viene riconosciuto da Atoka, più di 100mila hanno siti realizzati con WordPress, CMS open source nato per la gestione dei blog e ora alla base del 23% di tutti i siti web del pianeta (o almeno così si dice).

60mila aziende italiane preferiscono invece Joomla!, altro CMS open source. Al terzo posto  c’è Polopoly, piattaforma tecnologica usata da Seat Pagine per creare siti con il CMS Visual Site. Quasi 8mila si avvalgono di Drupal, circa 2400 usano TYPO3 (un CMS open source diffuso soprattutto in Europa) e circa 1700 DotNetNuke, CMS in ambiente Microsoft. Degno di nota è che Weebly, soluzione in hosting per realizzare siti web in maniera facile e veloce, è usato da più di 1660 imprese.

Riflessioni tecniche a parte (qui un post che abbiamo scritto sull’argomento), la diffusione dei CMS tra le ditte italiane è un’ulteriore prova, se mai ve ne fosse bisogno, della crescente sete di competenze informatiche da parte del mercato del lavoro italiano. Perché utilizzare un CMS non è ovviamente difficile come programmare bene in HTML, ma richiede comunque una certa familiarità con i mezzi digitali, terminologia tecnica inclusa (della serie: il CMS non è il CSM appunto).

Negli anni ’90, o ancora dieci anni fa, ci si poteva illudere che le competenze informatiche servissero solo a chi con l’informatica ci campava: ad esempio quel mitico personale tecnico che, in azienda come a scuola o in ufficio, veniva chiamato persino per cambiare lo sfondo del desktop. Oggi però non è più così. La rivoluzione delle ICT, che è sempre più pervasiva e ubiqua, sta trasformando profondamente il mondo del lavoro, colonizzando gran parte dei settori professionali: dal marketing alla medicina, dal diritto al manifatturiero.

Prendiamo il caso del giornalismo: come sanno bene i giornalisti de Gli Stati Generali, chi fa il mestiere del reporter non deve “solo” avere un buon fiuto per le notizie e saper scrivere, ma deve essere in grado di usare i social media, gestire un blog WordPress e caricare i “pezzi” su un sito; con tutta probabilità dovrà avere dimestichezza con il deep web, il data journalism e le piattaforme di crowdfunding (magari per farsi finanziare un reportage costoso). Ancora, gli serviranno le competenze per creare un’infografica e montare un video da condividere online e via dicendo…

Qualche giorno fa, annunciando la “Computer Science for All Initiative”, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha dichiarato: “Nella nuova economia la computer science non è una competenza opzionale. È una competenza fondamentale”. Nel 2014 il Regno Unito è stato il primo paese del G7 a introdurre l’informatica nei curriculum scolastici degli studenti tra i 5 e i 16 anni (come racconta The Guardian in un lungo articolo), in Estonia è dal 2012 che si sta cercando di insegnare la robotica, il web design e la programmazione.

Secondo le previsioni, nei prossimi anni nasceranno milioni di posti di lavoro collegati alle ICT. Nel solo Regno Unito dovrebbero essere, entro il 2020, ben 300mila. Già oggi esistono figure professionali, spesso molto ben retribuite, impensabili sino a qualche anno fa: dal social media manager allo UX designer, dal digital marketing manager al data scientist (e questo, a SpazioDati, lo sappiamo bene 🙂 Il mondo del lavoro sta davvero cambiando pelle (e si sta facendo anche un po’ di chiarezza sui vari tipi di figure professionali), e i bimbi che oggi vanno a corsi di programmazione tipo CoderDojo avranno senz’altro una marcia in più tra un paio di decenni.

 

Michele Barbera, autore dell’articolo, è il CEO di SpazioDati

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