Innovazione

C’era una volta La Fabbrica (oggi ci sono le Start-Up)

16 Febbraio 2018

Per un dialogo immaginario tra Andy Warhol, Olivetti e Pasolini

Questa non è una favola. Per meglio dire, non scrivo per raccontare favole, anche se chi ama lavorare con le parole in fondo amerebbe saper scrivere anche favole. Una favola in tema di fabbriche la scrisse Andy Warhol, appunto con la sua “Factory”, che resta probabilmente l’icona – anche comunicativa – della creatività. Dalle nostre parti una favola di fabbrica, ovvero un racconto di fabbrica capace di tenere insieme contenuto e contenitore, come in una coreografia di un passo a due, è senz’altro quella di Adriano Olivetti. Resto convinto che della lezione di Olivetti non se ne parli mai abbastanza, e in quel racconto il contenuto ed il contenitore io li vedo proprio così: reciproci, complici, affiatati. Non mi riferisco alla storia dell’imprenditore Olivetti, o alla complessità del suo pensiero, ma alla conseguente complessità della traccia che ha lasciato, una traccia che – per lo più – si è persa. Ho avuto il privilegio di toccare, materialmente, un pezzo di quella traccia, per essere più precisi ho avuto il privilegio di respirare per molti anni l’aria che circonda una parte di quella traccia – lo vedete nell’immagine “di copertina”, a Pozzuoli. Ne ho potuto solo immaginare il contenuto originario, ma tanto basta per leggere con più consapevolezza il senso fondativo della “comunità” che sta al centro della realtà di Olivetti.

“cos’è questa fabbrica comunitaria? E’ un luogo dove c’è giustizia e domina il progresso, dove si fa luce la bellezza e l’amore, la carità e la tolleranza sono nomi e voci non prive di senso”

Così parlava Olivetti (la citazione è da “Le fabbriche di bene“, Edizioni di Comunità, Roma/Ivrea, 2014), e attenzione alle parole, che sono le parole di un imprenditore: attenzione in particolare alla parola “progresso“. Sembra il caso citato da Pier Paolo Pasolini nei suoi Scritti Corsari, con quella lucidissima riflessione su progresso e sviluppo, dove il primo (il progresso, appunto) è nozione ideale, sociale e politica, il secondo (lo sviluppo) è fatto pragmatico ed economico. Il punto di incontro non era escluso, nel pensiero di PPP, ma come diceva in quella sede “non fa testo“, perché marginale, statisticamente irrilevante e, soprattutto, si colloca fuori da questa dicotomia e fuori dalle logiche che la alimentano. Ecco il punto, che voglio evidenziare.

Il prodotto, lo sviluppo ed il progresso

Una volta c’erano le fabbriche, culla dell’economia. Oggi ci sono le Start-Up, che spesso si insediano anche nei “vecchi luoghi” delle fabbriche e che danno evidenza a come vecchi modelli economici possano tradursi in nuove forme.

Ma queste nuove forme sono “prodotti dello sviluppo“, o sono riconoscibili come “prodotti per il progresso“? Paradigmatico il caso Amazon (e mentre scrivo mi rendo conto come “caso Amazon” suoni quasi stantìo… ragionevolmente Amazon è icona più che Case History, comunque), che a ben vedere continua ad alimentare molti modelli di Start-Up: forse, però, nuove forme per vecchi modelli – e settori – di business, nel caso specifico parliamo di logistica. Un po’ come nell’esempio del dito e della luna, perché, ad esempio, quando si parla di e-commerce si guarda spesso il dito, che indica la luna, ma non la luna stessa. In definitiva è lo stesso modello che funziona (ma funziona?) negli epigoni delle consegne a domicilio, come insegna il nuovo (?) spazio di mercato del Food. Dal punto di vista del business, del processo e dell’economia più in generale, questi esempi fanno della logistica il vero contenitore e della comunicazione il contenuto. Comunicazione e tecnologie della comunicazione sono strumentali ed al servizio di altri business – non sono cioé “prodotti di fabbrica” di questi esempi (e di tanti altri esempi di Start-Up). Ma alimentano altri business, alimentano un intero settore economico, che ha una sua filiera, fluida ed in continuo divenire per sua stessa natura, una filiera in grado di produrre cambiamenti di forma, ma non incidono sulla natura del business che, negli esempi richiamati, resta quella di spostare scatole.

C’è sviluppo, fatto paradigmatico ed economico, ma è ragionevole osservare che in questo non c’è, forse, alcun progresso, fatto “politico” nella sua accezione più ampia dunque inclusivo degli impatti producibili sulla società. E restando nella logica dello sviluppo, lo “Start-Up” è allora, semplicemente, una fase del ciclo di vita di ogni azienda, di ogni fatto economico cioé che possa connotarsi come “impresa”. Questa prospettiva, io credo, consente di risolvere molte ambiguità. E, di conseguenza, consente di circoscrivere una ambizione più precisa e significativa delle Start-Up e del loro ruolo (ancora inespresso, probabilmente) nell’economia.

E qui al dialogo partecipa anche Andy Warhol. La sua “Factory“, la fabbrica appunto, non è solo estetica delle parole. Era – e resta – l’idea della produzione creativa seriale. Era – e resta – l’idea della “linea di assemblaggio“, concetto che ha a che fare con la produzione, e che rinvia appunto al “prodotto di fabbrica“. Era – e resta – la logica della “produzione democratica”, cioé accessibile, che è concetto economico prima che estetico (sintetizzato nella etichetta della Pop-Art, arte popolare, appunto). Warhol lavorava con le litografie, la Fabbrica ne ospitava appunto la linea di assemblaggio, ma era anche il luogo, lo stesso luogo, dove si coltivava la creatività. In ogni sua forma. Era, in altre parole, un luogo di comunità. Ancorché eterodosso, quanto si vuole – se lo si vuole in definitiva “giudicare” – e, in definitiva, una visione comune con quella di Olivetti, in forma diversa.

Troppo suggestivo? Forse. Ma per tornare al punto, quello che distingue l’esperienza della Factory da altre – successive – realtà è proprio il cambiamento di forma e di sostanza. Al centro c’è la creatività, e le sue diverse forme. Nella Factory il business è la creatività, e la Factory ha cambiato modo di fare business della creatività, non usando niente di nuovo ma semplicemente adottando modelli di altri business. E creando così qualcosa di nuovo: in un percorso inverso, cioé, a molti paradigmi di Start-Up. Allo stesso modo, la Fabbrica di Olivetti cambia forma e sostanza delle fabbriche. Ne fa non più un luogo “di lavoro”, ma un luogo “di comunità” dove il lavoro è parte della stessa comunità e non la “ragion d’essere” di quello stesso luogo, come è invece nella visione storica della rivoluzione industriale, strumentale al business ed estraneo a chi a quel business partecipa con il proprio lavoro. In modo diverso, e con effetti diversi, entrambe le storie incidono sulla dimensione del progresso, non – solo – dello sviluppo, rovesciando paradigmi consolidati e facendo, attraverso il cambiamento, innovazione nel suo senso più profondo e compiuto: innovazione che partecipa al progresso e non – solo – allo sviluppo.

In conclusione

C’è chi ogni anno stila classifiche sulla qualità della vita, e chi – quasi a partecipare con elementi utili a misurare la qualità della vita – stila classifiche sui migliori posti dove lavorare. In molte di queste classifiche, le “Start-Up” (etichetta e codice, non reale significato di impresa) hanno preso il posto delle Fabbriche, ancorché come ho esposto, spesso si tratta semplicemente di una sostituzione lessicale dovuta alla evoluzione di contesto, e non ad un cambiamento di luogo, o di ruolo. Il problema, o il tema se preferite, è che questa qualità diventa difficilmente misurabile se la si guarda restando fermi al bivio tra progresso e sviluppo. Sarebbe forse più utile, costruttivo intendo, uscire dalla (erronea) rappresentazione delle Start-Up come risposta alle esigenze di innovazione pòste dalla società. Sarebbe più utile, costruttivo intendo, esporre le Start-Up al mercato ed alla società per il loro reale potenziale. E questo significherebbe, infine, abbandonare l’immagine di Start-Up come “etichetta” universale per tutto quanto abbia a che fare con innovazione, cambiamento, sviluppo – e progresso.

Sul piano economico e finanziario, la Start-Up è una impresa che può essere messa in condizione di fare ricerca e sviluppo – e “progresso”, nei suoi riflessi sociali – grazie alla disponibilità di capitali. L’innovazione sta qui, prima di tutto. Ricerca e sviluppo costano, e tanto: quante sono le Fabbriche che possono permetterselo? Ricerca e sviluppo dovrebbero anche essere uno degli imperativi della finanza pubblica. Se la disponibilità di capitali, orientati al progresso, costruisce il presupposto per cui ogni attività di impresa possa dedicarsi all’innovazione, alla ricerca ed allo sviluppo, si tratta di innovazione sociale, e dunque di progresso. Dunque “fare Start-Up” è piuttosto una conseguenza di questa innovazione, e non una risposta economica ai bisogni sociali.

Sta qui, nel mio pensiero – opinabile quanto si vuole – la continuità di questo dialogo immaginario tra Andy Warhol, Olivetti e Pasolini, in quel “fare comunità” che dovrebbe rappresentare il vero discrimine nel valutare la qualità di una Start-Up: fare comunità tra il capitale – ed i suoi interessi – e la società, fare comunità tra ricerca, sviluppo e progresso perché le innovazioni in qualsiasi settore producano cambiamento di forma e di sostanza, fare comunità perché il “luogo di lavoro” non sia (solo) il perimetro della Fabbrica o l’idea del salario consegnato ogni mese, bensì sintesi coerente di comportamenti, consapevolezze e partecipazione.

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