Industria
Tre ragazzi di Padova stanno digitalizzando la manifattura a Nordest
Ha mollato il lavoro sicuro di analista finanziario in una multinazionale per fondare un’impresa digitale a servizio dell’industria manifatturiera. All’ufficio nel cuore della finanza milanese ha preferito una scrivania di cartone – «anche le sedie sono di cartone» – precisa, condivisa in un Talent Garden. Contrariamente ai 23 mila giovani che secondo la Fondazione Leone Moressa negli ultimi dieci anni hanno abbandonato il Veneto, ha preso il treno e da Milano è tornato nella sua Padova. È uno dei motivi per cui abbiamo voluto parlare con Carlo Pasqualetto 31 anni. Laureato nel 2012 a Ca’ Foscari di Venezia in amministrazione, finanza e controllo si è specializzato l’anno successivo a Parigi alla Ecole Supérieure du Commerce de Paris, ESPC Europe. Lo raggiungiamo al telefono mentre è in attesa di prendere un aereo per Shanghai. L’altra ragione del nostro interesse è che in poco più di tre anni di lavoro la sua AzzurroDigitale, fondata con i coetanei Jacopo Pertile e Antonio Fornari, ha conquistato la fiducia di multinazionali come Electrolux e Safilo e proprio quest’ultima ha incaricato l’azienda padovana di digitalizzare l’impianto produttivo in Cina, nel parco industriale di Suzhou.
Dalle scrivanie di cartone alla Cina ci siamo persi un po’ di passaggi. Quella che ci viene raccontata è una storia che sarebbe comunissima nella Silicon Valley, ma resta poco meno di un unicum qui in Italia. Le ragioni sono antiche e in parte Pasqualetto le spiegherà in seguito. Come tutte le storie di successo, anche questa comincia con un fallimento.
«Sembra un cliché, ma giuro che è andata così. Ero arrivato da poco a Milano, in Deloitte, dove ero stato inerito nel team incaricato della due diligence per l’acquisizione de La7 da parte di Cairo. Finanza pura, ma continuavo a essere attratto dal mondo digitale e dalle sue promesse. Come me altri colleghi. Era il 2013 e Facebook aveva dimostrato già da tempo le opportunità di un social network ben strutturato, così con un paio di amici pensammo di crearne uno ex novo. Lo chiamammo ‘youmove’ ed era un’app pensata per condividere gli spostamenti tra le varie città europee con la rete di amici e massimizzare le possibilità di incontro. Ci schiantammo contro un muro. Avevamo limiti di capitale, costituito essenzialmente dai nostri stipendi, molti concorrenti e, soprattutto, ci dedicavamo i ritagli di tempo. Con Jacopo, passavamo dieci, dodici ore al giorno negli uffici dei rispettivi datori di lavoro, lui in Arthur D. Little e io in Deloitte e la notte, a casa nostra, a lavorare all’applicazione».
Una riedizione milanese del garage di Seattle. Un altro cliché.
«Sì, una cosa molto naive vista con il senno di poi. Ricordo che anche gli sviluppatori stavano con noi e, poiché eravamo signori, nelle poche ore di riposo che ci davamo loro dormivano nei nostri letti e noi sul divano in salotto. Finiti i soldi per pagare i programmatori, abbiamo chiesto ad Antonio Fornari, sviluppatore di Corvallis che conoscevo dai tempi del liceo, di terminare l’applicazione. Ma quello che avevamo pensato non decollò mai, non aveva i mezzi né le caratteristiche per avere successo. Chiudemmo tutto».
I tre fondatori di AzzurroDigitale: da sinistra Carlo Pasqualetto, Jacopo Pertile e Antonio Fornari
Comunque eravate al sicuro, ciascuno con il proprio lavoro in aziende multinazionali.
«Il tarlo dell’imprenditore si era ormai insinuato in noi. Anche nel nostro ambiente stava montando l’onda dell’economia digitale. Se ne parlava come di una rivoluzione in corso, ma non ancora matura; e noi volevamo essere della partita, per passione e credo in gran parte perché ne eravamo tutti influenzati direttamente. L’esperienza di youmove ci aveva consegnato un progetto morto ma con diverse competenze e una convinzione: quando fai una cosa in questo settore devi dedicarci il 100 per cento delle energie, del tempo, delle risorse disponibili. Volevamo fare sul serio e la nostra idea non si conciliava con un lavoro notturno, part-time».
Però potevate rimanere a Milano. Quale posto migliore in Italia per affacciarsi sul mercato digitale?
«Piano. Intanto abbiamo cominciato a ragionare sul fatto di volerci provare, ma nessuno di noi aveva un’idea chiara per partire. Da un lato eravamo scottati dal fallimento di youmove, dall’altro suggestionati da nuove tecnologie come la blockchain e dall’utilizzo dei big data. La maturità di capire di cosa ha bisogno il mercato e di soddisfare quelle esigenze, sarebbe arrivata dopo. Fatto sta che dopo qualche discussione, senza un cliente e neppure un piano strategico ci siamo licenziati tutti e tre dai rispettivi posti di lavoro. Poiché siamo tutti e tre veneti abbiamo pensato che la strada più breve fosse quella di casa. Ci siamo dati tre anni per esplorare e verificare se ci fossero le condizioni e lo spazio per un soggetto specializzato nell’introdurre le nuove tecnologie nelle imprese tradizionali rendendole più efficienti ed efficaci».
E siete tornati a Padova
«Esatto e abbiamo fondato AzzurroDigitale. Avevamo tre scrivanie di cartone al Talent Garden di Padova e i genitori disperati. Con quello che avevano speso per la nostra formazione, non si capacitavano della nostra scelta di lasciare delle buone posizioni in aziende multinazionali in cui avremmo potuto fare carriera per tornare in una situazione che, almeno a occhi esterni, è molto simile a un’assemblea di istituto permanente».
Almeno un cliente lo avevate?
«Il primo incarico lo ricevemmo da Caffè Collant, una merceria storica di Padova, per digitalizzare le loro vendite».
Quindi un negozio online di mutande e reggiseni
«Detta così sembra una cosa da poco. In realtà abbiamo provato ad applicare le nostre competenze e grazie al progetto quell’attività ha vinto il premio “Stelle dell’Intimo” come negozio dell’intimo più innovativo d’Italia nel 2015. In realtà però ci rendiamo subito conto che le piccole realtà faticano a remunerare il tipo di consulenza che riusciamo a fornire, che è tecnica ma soprattutto strategica, finanziaria e di analisi del mercato».
Però la fortuna aiuta gli audaci
«Succede che tra le relazioni attivate e i lavori fatti la voce su AzzurroDigitale si sparge e un giorno arriva una email in inglese da parte di Electrolux. Il mio collega la considera spam e la cancella, quasi innervosito, ma il giorno successivo ricevo alcune telefonate da un numero in provincia di Pordenone a cui non rispondo. Vista l’insistenza cerco su Google e mi compare lo stabilimento Electrolux di Porcia. Ancora oggi non ho idea di come siamo riusciti a recuperare l’email cancellata. Ci chiedevano la disponibilità a partecipare a una gara per sviluppare un progetto di pianificazione intelligente della forza lavoro. Incontriamo i responsabili della fabbrica, prepariamo progetto e preventivo in dieci giorni e ci inventiamo un modo innovativo di risolvere il loro problema. Vinciamo la gara sviluppiamo il software per la gestione efficiente dei turni e scopriamo il mondo della manifattura che fino a quel momento avevamo completamente trascurato. Avevamo trovato una nostra nicchia, trascurata da tutti i concorrenti».
Le fabbriche attuali hanno un tasso di innovazione elevato, o sbaglio?
«Diversamente da quanto si immagini, molte attività vengono fatte ancora in analogico. Accanto a processi produttivi automatizzati o all’introduzione di software sofisticati per la gestione dell’amministrazione o per la selezione del personale, il resto è un campo inesplorato: gira tantissima carta o, al massimo fogli excel. Fatto sta che il progetto di Porcia diventa una best practice per l’intero gruppo svedese e la casa madre lo acquisisce per adottarlo in tutti gli impianti. Per noi è stata la svolta, abbinata ai finanziamenti pubblici del piano Industria 4.0 dell’allora ministro Calenda. Oggi, dopo 4 anni siamo in 18, abbiamo una nuova sede e creato un’azienda spin off che si occupa solo di ottimizzazione della forza lavoro, cioè di gestione dei dipendenti nelle turnazioni e nella produttività. Tra tanti clienti di AzzurroDigitale c’è anche Safilo. E oggi vado a Shanghai per due settimane per il kick off del progetto».
Il team di AzzurroDigitale
Però questo lavoro lo potevate fare anche a Milano, forse con ancora maggiore profitto
«Mica vero. Se non lo avessimo fatto qua non ci saremmo riusciti. Intanto stiamo lavorando in un territorio che ha un tessuto imprenditoriale estremamente ricco e in cui gli imprenditori e i manager si conoscono quasi tutti, quindi il passaparola ci ha avvantaggiato moltissimo. E poi siamo riusciti a far rendere al massimo due reti di relazioni molto distinte che ciascuno di noi tre aveva acquisito: quella internazionale derivata dagli studi e dalle esperienze di lavoro e quella locale che ci consente di trovare a colpo sicuro o quasi i collaboratori di cui abbiamo bisogno. Inoltre, qui la professionalità ti viene riconosciuta in maniera molto forte. Se sei a Milano o a Parigi c’è molta più competizione, saresti uno dei tanti. Per non dire della struttura dei costi infinitamente inferiore, il che si traduce nella possibilità di ingaggiare talenti locali».
I centri decisionali delle imprese, specie quelle grosse, sono ormai tutti fuori dal Veneto. Quanto è un problema per voi?
«Nessuno, perché i budget relativi alla fabbrica sono in mano alla fabbrica. Diversamente da altri tipi di funzioni, l’interlocutore con il portafoglio è molto vicino».
Quali limiti avete riscontrato?
«Un limite nostro è stato all’inizio di voler proporre idee e progetti che altrove sono ormai ordinari, ma del tutto fuori contesto per la realtà manifatturiera locale. Ci stavamo per schiantare una seconda volta, ma siamo stati abbastanza prudenti e pragmatici da adattarci alle reali esigenze dei potenziali clienti. Abbiamo avuto l’umiltà di capire che non potevamo vendere l’intelligenza artificiale o la blockchain a organizzazioni di centinaia di persone che lavoravano ancora con i fogli excel. Tra questi due estremi c’è un mare da attraversare e bisogna fare una vogata alla volta».
L’altro?
«Se mi è concesso, faccio una breve critica al sistema».
Prego
«Tutti gli investitori noi li abbiamo trovati a Milano. Un’azienda come AzzurroDigitale per crescere ha bisogno di investimenti pesanti. Anche se hai clienti grossi, senza capitali non riesci a crescere, ad assumere personale e a investire. Le tecnologie da questo punto di vista richiedono risorse costanti. Noi abbiamo raccolto circa un milione di euro e dobbiamo competere con chi ne raccoglie decine. Nell’ecosistema del Nordest la sensazione è che ci sia ancora poca fiducia nell’investire in innovazione. Nel Veneto troviamo resistenze tra gli investitori che prediligono l’immobiliare, mentre a Milano c’è molta più facilità e, direi, comprensione immediata delle potenzialità».
È una questione di ambiente, di risorse o di mentalità?
«Non saprei rispondere con precisione. Noto però che a Milano funziona la ‘mentorship’, cioè quel processo che reimmette nel sistema parte dei capitali guadagnati altrove per dare opportunità ai giovani e a chi ha idee innovative, sapendo che molte di queste esperienze possono andare male. Ma è naturale che sia così ed è grazie alle esperienze e ai tentativi che fanno decine di imprese in questo campo se nascono nuovi servizi, nuovi prodotti, sostanzialmente nuove idee. A Nordest, purtroppo, ci sono tante iniziative di facciata, mediatiche. Poi chi vive l’ecosistema, è normale che si frustri».
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