Industria
La tecnologia è creatività
In Italia resiste una curiosa contrapposizione, che non ha eguali nel resto d’Europa: quella tra umanisti da un lato, scienziati, tecnologi e tecnici dall’altro. Non essendo né uno storico della cultura, né un sociologo, non so spiegare le ragioni di questo fenomeno. So però che non è sempre stato così. Nel Rinascimento spesso i grandi intelletti erano umanisti, scienziati e tecnologi allo stesso tempo. Pensiamo a Filippo Brunelleschi: il genio fiorentino, padre della Cupola di Santa Maria del Fiore, era un innovatore a tutto tondo, che grazie alla sua mente poliedrica sapeva coniugare in modo straordinario arte e conoscenza dei materiali, design e matematica, geometria, competenze gestionali e tecniche. Oppure pensiamo a Leon Battista Alberti, che è stato definito «uomo universale», «pittore, architetto, poeta, erudito, filosofo e letterato». O a Leonardo, ovviamente.
Ancora, potrei citare Galileo, uno dei fondatori della scienza moderna: non era solo un fisico, astronomo e matematico, ma anche un acutissimo filosofo, come sa chiunque abbia letto il “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” (che ebbe un impatto profondo pure sulla lingua italiana). Matteo Ricci, il gesuita che fece scoprire l’Occidente all’Impero cinese (e viceversa), insegnava Euclide ai mandarini, ma era anche un umanista raffinatissimo.
Per venire a tempi più prossimi, si considerino tre dei più grandi autori del Novecento italiano: Primo Levi, Salvatore Quasimodo, Carlo Emilio Gadda: il primo fu scrittore, e chimico di vaglia; il secondo, Nobel per la letteratura, lavorò come geometra e fece studi di ingegneria civile; il terzo fu romanziere, con una laurea in ingegneria idraulica (tanto da lavorare anche in Belgio e in Argentina, dove sovraintese al montaggio di una centrale termoelettrica).
Ovviamente a ciascuno il suo. In questi tempi di crescente specializzazione non si può essere tuttologi, non si può eccellere in ogni disciplina e scienza. Ma il fossato che si è aperto tra gli umanisti da un lato, i tecnologi, i tecnici e gli scienziati dall’altro, preoccupa. Va contro una delle cifre della tradizione culturale italiana, che è sempre stata duttile e interdisciplinare, e attenta al retroterra greco-romano. Non è un caso che al liceo scientifico si studi il latino, e al classico anche il greco antico: per secoli gli scienziati e i tecnologi d’Europa si sono nutriti di filosofia, e delle opere di pensatori come Euclide e Archimede.
Poc’anzi ho scritto di “tradizione culturale italiana duttile e interdisciplinare”. In realtà anche la nostra tradizione imprenditoriale è da sempre all’insegna della duttilità e di una profonda interdisciplinarità. Alcuni tra i migliori imprenditori della storia italiana erano innovatori dal poliedrico intelletto. Viene subito in mente Adriano Olivetti, che fu imprenditore, tecnologo e visionario della politica e della società. Potrei menzionare Giovanni Agnelli, che dopo gli studi classici si appassionò all’ingegneria meccanica e alla seconda rivoluzione industriale. E oggi molti tra i più stimati manager del paese vantano, nel loro curriculum, studi classici o umanistici.
Confrontarsi con il pensiero di Platone, i versi di Ungaretti, le opere di Verdi o i chiaroscuri di Caravaggio serve. Forma. Ma serve anche cimentarsi con l’elettrotecnica, approfondire la meccanica dei fluidi, saper usare una fresa o disegnare una funzione. Anche queste cose formano. Se troppi mettono in dubbio – sbagliando – le potenzialità di una laurea in letteratura o in filosofia, molti umanisti e artisti guardano con snobismo, dall’alto in basso, chi si specializza in qualche ramo dell’ingegneria, o magari ha il suo sapere nelle mani. In tempi dove tutti si riempiono la bocca di paroloni roboanti come “creatività” e “talento”, resiste ancora il pregiudizio che la creatività e il talento siano appannaggio di pochi eletti.
La scienza, anche la più dura, è spesso creativa. Molto creativa. E lo stesso può dirsi per la tecnologia. Ancora, l’innovazione, almeno in Italia, non nasce sempre in grandi laboratori, o in futuristici centri di ricerca. Talvolta è il frutto dell’interazione tra saperi all’apparenza umili (in realtà formidabili) come quelli che possono avere dei professionisti diplomatisi al tecnico, o in qualche scuola professionale (l’economista Stefano Micelli ha spiegato egregiamente questo punto, nel suo saggio “Futuro artigiano”).
La dimensione creativa della scienza, della tecnologia, della tecnica è resa palese da uno dei pilastri dell’export italiano: l’automotive. Le auto che hanno fatto la storia della manifattura italiana, e hanno contribuito in modo decisivo al benessere e alla reputazione dell’Italia nel mondo, sono concentrati di tecnologia, scienza, bellezza; alchimie frutto del genio concorde di artigiani, tecnici, ingegneri, scienziati, designer e manager. E persino letterati: di recente ho scoperto che alla scelta del nome Tipo contribuì anche uno dei più illustri linguisti italiani. Quando si dice l’interdisciplinarietà…
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