Industria

Salviamo l’automotive italiano dal Covid-19: con un’auto elettrica Made in Italy

16 Aprile 2020

L’Italia è un paese di santi, poeti, artisti e navigatori. Ma anche di epidemiologi e virologi il lunedì, macro-economisti ed esperti di finanza pubblica il martedì, politologi, germanisti e storici dell’integrazione europea il mercoledì (e così via sino alla domenica, giorno che prima della pandemia era dedicato al calcio). In questo paese, dicevo, non è insolito che ogni tema venga affrontato, nella migliore delle ipotesi, in modo impressionistico e dilettantesco. Ed è a dir poco frequente che temi fondamentali vengano del tutto dimenticati.

Prendiamo l’industria dell’automotive. Anche se ormai la FIAT è “soltanto” un marchio del colosso internazionale FCA Group, in Italia il settore rimane strategico, in termini di occupazione, di indotto, di valore aggiunto ecc. Le sole aziende impegnate nel manifatturiero automotive sono almeno cinquemila: da quelle che fabbricano autoveicoli veri e propri (in Piemonte, in Motor Valley, nel Mezzogiorno e così via) a quelle che fanno pneumatici e camere d’aria; da quelle che realizzano apparecchiature elettriche ed elettroniche, a quelle che fabbricano carrozzerie o accessori. Il settore della componentistica, da solo, dà lavoro a quasi 160mila addetti diretti. Ma l’indotto è vastissimo, e va dallo studio di design pugliese al produttore di vetri in policarbonato del nordovest sino alla startup di Bologna o Padova.

L’industria dell’automotive, in Italia, significa posti di lavoro di qualità (per ingegneri, tecnici e operai specializzati, designer, progettisti); brevetti; esportazioni che valgono quasi il 10% di tutto l’export nazionale; posizionamento internazionale, perché senza l’automotive l’Italia perderebbe alcune tra le più importanti icone del Made in Italy. La rilevanza dell’automotive è anche geopolitica. Le filiere dell’automotive innervano tanto il nord che il centro e il sud; e i trasporti su gomma, in un paese vasto e lungo, profondamente policentrico e densamente popolato, giocano un ruolo fondamentale nel tenere unita non solo l’economia nazionale, ma la stessa società italiana.

La recessione causata dal Covid-19 rischia però di infliggere un colpo mortale all’industria automotive italiana. Chi comprerà auto, in questo disgraziato 2020? Il crollo degli acquisti in Cina, Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia (e Italia: il calo delle vendite a marzo rasenta l’86%) costituisce un pericolo mortale per l’industria automotive italiana. Fatta, soprattutto, da PMI che non possono contare sulle riserve finanziarie delle (poche) grandi realtà italiane e dei potenti colossi stranieri. Ovviamente una frazione di queste PMI può riconvertirsi, e iniziare a produrre respiratori, ventilatori e altre apparecchiature per la lotta al Covid-19, ma per la maggioranza di esse all’orizzonte ci sono soltanto ondate di licenziamenti, la chiusura, o l’acquisizione per pochi spiccioli da parte di qualche impresa, probabilmente straniera (e nella migliore delle ipotesi tedesca, francese o scandinava).

Nel Vangelo sta scritto: “Vegliate, perché non sapete né il giorno né l’ora”. La mancanza di una seria politica industriale negli ultimi trent’anni (con la parziale eccezione di quanto fatto da Carlo Calenda con il piano Industria 4.0), e gli errori di regioni ed ecosistemi locali che non hanno mai veramente capito la rilevanza dell’automotive (tra le pochissime eccezioni, l’Emilia-Romagna), rischiano di provocare la semi-estinzione di un’industria che, nel bene e nel male, ha concorso a plasmare la storia d’Italia.

Il governo, le regioni e i principali attori degli ecosistemi manifatturieri italiani devono subito attivarsi per proteggere uno dei pilastri del nostro manifatturiero e della nostra prosperità. Perché senza l’automotive, l’economia italiana sarebbe ancora meno “europea” e ancora più “sudamericana” (del resto è interessante notare come l’America cd latina sia una delle poche grandi aree del pianeta a non avere brand automotive autoctoni di peso internazionale, al pari di Africa e Oceania). In poche parole, un’Italia che smette di produrre auto e componenti è davvero sulla strada della desertificazione industriale, dell’irrilevanza geopolitica, della povertà.

Crisi vuol dire, in greco antico, scelta. La politica (nazionale e regionale) e la società italiana sono oggi a un bivio. Possono scegliere di continuare a trascurare un’industria fondamentale, o possono attivarsi per sostenerla. Ma in che modo?

È innegabile: l’automotive globale sta vivendo una profonda trasformazione; il futuro di questa industria oggi viene scritto in California, nell’Hubei, nel Guangdong, nel Chūbu, e parlerà la lingua del machine learning, dei nuovi materiali, dei big data, della fotonica, della visione artificiale e delle nanotecnologie. Acronimi come SAEV, LiDAR, V2V a molti dicono poco o niente, ma fanno parte del lessico di un’industria che, per poter sopravvivere in un mondo segnato dal cambiamento climatico e da nuove esigenze sociali ed economiche, sta evolvendo in fretta. L’auto del futuro si guiderà da sola (o quasi), sarà probabilmente elettrica, avrà a bordo ogni genere di sensore, si coordinerà con gli altri veicoli e con l’ambiente: sarà un concentrato senza pari di competenze meccatroniche, informatiche, elettroniche, nanotech e telecomunicative.

L’Italia, nella partita dell’auto del futuro, non sta giocando un ruolo all’altezza della sua storia e del suo potenziale. Né lo stanno facendo gran parte degli altri paesi d’Europa. La storia ci insegna che lo “Stato innovatore” (concetto coniato dall’economista Mariana Mazzuccato) è una presenza costante dei paesi che innovano e dominano: vale per la Silicon Valley, che non sarebbe mai nata senza i finanziamenti diretti e indiretti del Pentagono; vale per l’Arsenale di Venezia, che nel XVI secolo era il principale polo industriale e tecnologico europeo, grazie alla lungimiranza della Repubblica veneta.

Questa crisi, causata dalla tragedia del Covid-19, potrebbe diventare un’opportunità unica per aiutare la nostra industria automotive a evolvere, a livello tecnologico e industriale. E come? Oltre alle (doverose) misure fiscali, si potrebbe seguire l’esempio della Turchia, paese in fase di forte re-industrializzazione, che pochi mesi fa ha presentato al mondo i primi due prototipi di TOGG.

TOGG è un SUV elettrico made in Turkey che sarà su strada a partire dal 2022. È l’obiettivo di un consorzio che riunisce alcuni dei più importanti attori industriali e tecnologici del paese; a guidarlo sono un manager del colosso Bosch e uno di General Motors Korea. TOGG è un passo avanti importante per una delle economie più dinamiche del Mediterraneo, già sede di stabilimenti FCA, Toyota, Renault, Ford ecc. Perché non imitare la Turchia, e lanciare una grande partnership pubblico-privata con aziende, centri di ricerca e di design e università, per creare il primo SAEV (Shared, Autonomous Electric Vehicle) al 100% Made in Italy?

Un veicolo elettrico, autonomo e condiviso; che concentri le straordinarie competenze italiane nell’ambito della meccatronica, della visione artificiale, dell’intelligenza artificiale, dei nuovi materiali, delle telecomunicazioni e dello stoccaggio dell’energia, e le coniughi con l’immenso know-how italiano nel design e nella costruzione di auto di alta gamma. I turchi per il loro progetto hanno messo sul piatto – dai dati in mio possesso – quattro miliardi di dollari spalmati su oltre dieci anni; in Italia un investimento un po’ più ambizioso potrebbe essere un’importante leva non soltanto per il settore, ma per le startup automotive disseminate da nord a sud, per i laboratori universitari, per l’immaginario di milioni di italiani amanti dei motori, per risollevare la nostra reputazione in Europa e nel mondo, per riaccendere l’orgoglio del paese.

Chi dovrebbe guidare questo consorzio? Non ne ho idea, il governo ha ormai parecchi saggi a cui rivolgersi, ma probabilmente l’amministratore delegato dovrebbe essere un ingegnere del nostro manifatturiero.

È giunto il tempo di seguire le orme del senatore Giovanni Agnelli. Senza la lungimiranza e l’intelligenza dell’imprenditore torinese, e senza il sostegno del governo di allora (guidato da Giovanni Giolitti), la FIAT non sarebbe mai nata, e l’Italia forse non avrebbe mai avuto una grande industria automobilistica. Oggi serve lo stesso coraggio e la stessa capacità di visione che ebbero Agnelli e altri investitori, nel lontano 1899. Ce l’hanno fatta in Turchia, possiamo farcela nell’Italia post Covid-19.

 

Immagine di copertina recuperata da Pixabay.

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