Industria
Renzi e lo Stato Imprenditore
Secondo le voci di qualche informato cronista, uno dei pochi libri che Matteo Renzi avrebbe messo in valigia per la sua breve pausa estiva sarebbe stato lo Stato Innovatore di Mariana Mazzucato (“Anticorpi”, Editori Laterza), versione italianizzata del successo del 2011 The entrepreuneral state, Debunking Public vs. Private Sector Myths, che ha reso celebre negli ambienti accademici internazionali l’economista italiana dell’Università del Sussex riportando alla ribalta il ruolo essenziale dello stato nelle politiche di crescita e di sviluppo. Con un testo del genere nella readlist, si può supporre che il premier fosse all’epoca in cerca di risposte su come rilanciare la competitività del sistema industriale del Paese partendo da due driver costantemente oscurati come l’innovazione e la formazione. La tappa successiva del viaggio personale intrapreso da Renzi sulle rotte inesplorate della riscoperta della politica industriale fu la visita alla Silicon Valley di metà Settembre, tesa a celebrare il mondo dell’hi-tech, delle start-up, degli spin-off, dei brevetti e dei sistemi di innovazione. In seguito, le politiche filo-imprenditoriali del governo, caratterizzate da liberalizzazioni, deregolamentazioni e semplificazioni volte a stimolare l’afflusso di capitali stranieri, insieme all’intensificazione del conflitto con le forze sindacali, hanno evidenziato un netto cambio di rotta negli schemi di pensiero del premier e delle scelte di strategia industriale in un senso complementare se non alternativo rispetto alle tesi prefigurate dal libro di Mazzucato. Appurato che la sostenibilità della traiettoria di crescita di uno paese dipende dall’upgrading tecnologico del suo sistema produttivo e dalla sua capacità di esportare prodotti complessi e ad alto valore aggiunto, adeguarsi alle frequenti oscillazioni della domanda globale e raggiungere o avvicinarsi progressivamente alla frontiera tecnologica nei settori di specializzazione, è possibile distinguere tra due diversi approcci nella letteratura prevalente sulle politiche di sviluppo industriale e tecnologico. Il primo è fondato sulla predisposizione di un business environment ottimale, ovvero sull’adozione di politiche volte ad integrare i network produttivi attraverso l’allestimento di risorse complementari all’attività economica come le infrastrutture, la trasparenza informativa, la formazione professionale ed altre tipologie simili di servizi; il secondo si basa su un modello sviluppista, ovvero su visione più interventista dello stato, concepito come attore proattivo che dirige a pieno titolo il sistema economico ed effettua, a seconda delle sue priorità strategiche, politiche economiche e industriali distorsive alterando i prezzi (getting the price wrong) o selezionando singolarmente i settori e le singoli imprese da sostenere (picking the winners), promuovendo all’occorrenza anche misure protezionistiche al fine di dotare l’industria locale delle capacità innovative necessarie a sostenere la concorrenza esterna. A parere di molti economisti i due approcci sopra delineati sono complementari e non devono essere letti in modo contrapposto, ma se si analizza il trend politico sullo scenario internazionale si può riscontrare come i due schemi vengano considerati fortemente alternativi. Da un lato, le ricette di politica economica propugnate dalla World Bank e dalla Troika si ispirano al primo approccio, dall’altro le azioni selettive di politica industriale recentemente intraprese dal governo cinese e da quello statunitense a guida democratica si rifanno al secondo approccio. Guardando in casa nostra, le politiche di Renzi danno l’impressione di voler applicare alla lettera i precetti teorici della Troika, al netto della richiesta di un discreto margine di flessibilità operativa. In questa cornice il premier sembra puntare sull’incremento di attrattività del sistema produttivo del Paese, aprendo la porta ad iniezioni di capitale estero e cercando di stimolare gli animal spirits degli imprenditori con una serie di politiche dell’offerta e di defiscalizzazioni volte a mobilitare il risparmio interno, considerato il principale motore per la ripresa. Dall’altra parte, le tesi del libro della Mazzucato raccomandano politiche a sostegno della domanda veicolate dalla stato, al quale si attribuisce una funzione cruciale nel processo di ristrutturazione industriale e competitiva del sistema-paese, pienamente in linea con i dettami del filone teorico dell’ Industrial Policy Resurgence. In particolare, la Mazzucato si propone di raccogliere l’invito che lo storico Toni Judt lancia alla nuova generazione di intellettuali di sinistra nel suo libro-eredità Guasto è il mondo (Editori Laterza), ovvero di ri-costruire una nuova dialettica dello stato che ne illumini le virtù piuttosto che evidenziarne i limiti. Seguendo questa linea Mariana Mazzucato capovolge la prassi discorsiva della contrapposizione stato-affari economici, resa dominante dalla visione neoliberale, decantando le virtù dello “stato imprenditore”. Alla prospettiva del disimpegno statale e dello smantellamento delle strutture pubbliche la Mazzucato contrappone i benefici dell’intervento governativo in una serie di esperienze di sviluppo nel campo dell’innovazione che spesso sono state annoverate tra i successi del privato: dalla creazione della Silicon Valley al progresso tecnologico nell’industria farmaceutica e delle biotecnologie, dall’affermazione di innovazioni epocali come internet allo sviluppo di nuovi settori industriali ad alto contenuto tecnologico come quelli dell’energia pulita e delle nanotecnologie. Secondo la Mazzucato, in tutti i paesi industrialmente avanzati la funzione dello stato non si è limitata solo a correggere i fallimenti del mercato, ma si è spinta ben oltre, direzionando pioneristicamente fondi e investimenti verso settori strategici a basso rendimento iniziale, con costi di sviluppo molto alti e tecnologie i cui tassi di rischio non erano sostenibili dal privato. Seguendo il disegno dell’economista italiana, i governi delle principali potenze industriali globali, come quello americano e giapponese, non solo hanno finanziato i progetti di ricerca (applicata o di base) più rischiosi, ma sono stati spesso i promotori delle innovazioni più radicali e rivoluzionarie, creando dal nulla dei nuovi mercati e generando processi di crescita generalizzata che hanno avuto effetti pervasivi su tutti i settori, riducendo i costi e migliorando l’efficienza produttiva. Una simile analisi mira a sfatare alcuni falsi miti, ingigantiti dalla retorica dei policy makers degli ultimi anni, relativi al ruolo salvifico dei venture capital nelle fasi di avviamento di un’azienda e alla funzione dei patent box nell’ambito della commercializzazione delle innovazioni. Alla base della gran parte dei progressi e delle rivoluzioni di natura tecnologica ci sarebbe, dunque, soprattutto l’azione dello stato. Uno stato “imprenditore” che, assecondando la sua mission innovativa orientata al miglioramento del benessere generale, si sarebbe assunto dei rischi improponibili per il privato al fine di sviluppare prodotti e conoscenze non rivali e non esclusivi. Ritornando all’Italia e alla svolta decisionista impressa da Renzi alle politiche economiche, se da una parte non si può non apprezzare il ritorno alla centralità della politica dopo anni di commissariamento tecnocratico delle sue funzioni di natura economica, dall’altra si registra però con allarme un progressivo svuotamento delle strutture tecniche poste al servizio della politica. Al di là della semplificazione, il nostro Paese ha bisogno di riforme di natura complessa, che solo un civil service selezionato, qualificato e altamente motivato può consentire di portare a termine. C’è da augurarsi, dunque, che dopo decenni di subordinazione e marginalità la politica possa servirsi della tecnica senza però disprezzarla o svilirla, perché un governo politico che non attinge dalle competenze e dai saperi presenti all’interno del sistema pubblico rischia di perdere la sua missione generale, diventando ostaggio di logiche devianti (di natura clientelare, corporativa o demagogica) o peggio strumento degli interessi particolaristici del privato. Ma queste sono aspirazioni che potremmo permetterci se fossimo convinti di avere alla direzione del Paese un giovane statista. C’è da capire se Renzi aspiri a tale ruolo, oppure si accontenti di essere il rottamatore.
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