Industria

La Politica Industriale può ripartire dal Distretto Ceramico?

11 Marzo 2022

Quando uno studente o una studentessa delle superiori di Sassuolo va in gita all’estero, la prima domanda che fanno i genitori è “com’è andato il viaggio?”. La seconda è “che piastrelle ci sono in Hotel?”.

Questo aneddoto mostra quanto importante sia per Sassuolo e dintorni il settore della ceramica. Dalla Marazzi appena fuori dal centro, passando per la Graniti Fiandre al di là del fiume Secchia nel reggiano o, specularmente, la Casalgrande Padana prendendo per Reggio Emilia. Un distretto che conta 18mila addetti e 300 aziende, che produce l’80% della produzione nazionale di piastrelle per un fatturato che si aggira attorno ai 4 miliardi di euro.

La crisi indotta dalla diffusione del virus SarsCoV2 e ora la tragedia dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia del dittatore Vladimir Putin gettano nubi sul futuro del distretto. Dopo una vigorosa ripresa nel 2021, quando le aziende non riuscivano a stare dietro agli ordini, la mancanza di materie prime dovuta alla disruption della supply chain e alla tensioni internazionali, il rincaro del costo dell’energia per la produzione e dei carburanti per la logistica hanno paralizzato il settore.

Lo stoccaggio di materiale potrebbe durare ancora un mese o forse due, ma non di più. Paralizzare il settore rischia di depauperare una zona che già da anni, dopo la crisi del 2008, ha visto un peggioramento della situazione dovuta alla concorrenza estera e alla globalizzazione. Non solo: il rischio di questa catena di sfortunati eventi potrebbe avere effetti significativi sul lungo periodo.

Secondo studi svolti a partire dagli anni ’80 da Blanchard e Summers l’occupazione sarebbe affetta da isteresi, un fenomeno non lineare tale per cui gli shock economici hanno effetti duraturi anche al ritorno a una situazione di equilibrio. Le persone che hanno perso il lavoro o che lo perderanno in questi mesi, anche per via dell’età avanzata che caratterizza certe parti del settore, potrebbero spingerle verso un periodo di disoccupazione più lungo e doloroso.

Una serie di problematiche che mette in luce, in un’intervista concessa al quotidiano locale La Gazzetta di Reggio, Franco Manfredini proprio della Casalgrande Padana. Il rischio è una concorrenza estera, in paesi come Turchia e Stati Uniti, dove i costi di produzione sono inferiori. D’altronde la panoramica attuale già non lascia ben sperare: secondo i dati ISTAT i costi di produzione per l’intero settore industriale a gennaio sono aumentati del 32% rispetto all’anno precedente.

Le problematiche evidenziate nell’intervista sono di due tipi: da una parte la carenza di argilla che rappresenta uno dei componenti principali del prodotto finale. Dall’altra appunto il costo dell’energia che dipende, anche, dall’aumento del gas russo.

Il primo problema non ha una soluzione né semplice né immediata. L’approvvigionamento di questi materiali non si può di certo scombussolare da un giorno all’altro.

Il secondo invece richiede una riflessione più interessante. Ovviamente sul breve termine non è possibile risolvere, anche diversificando i nostri fornitori e aumentando le riserve di gas. Ed è quindi necessario un sostegno fiscale non indifferente: vanno nella direzione giusta le parole di Draghi sul tetto al prezzo del gas e sulla tassazione degli extraprofitti delle società elettriche.

Come si fa notare nell’intervista, è necessario un rapporto più stretto tra il settore industriale e lo Stato. Manfredini cita il caso della Germania. Ormai da anni il paese fa sempre più affidamento sulla banca pubblica KfW, l’equivalente tedesco di Cassa Depositi e Prestiti. Ma forse, per avere una panoramica più approfondita, è necessario volgere lo sguardo oltre l’Oceano.

Da sempre gli Stati Uniti sono la bandiera del libero mercato e della libera iniziativa privata. Ma a uno sguardo più attento la situazione è differente. Prendiamo un esempio paradigmatico, quello dell’industria tech e del polo della Silicon Valley. Lungi dall’essere un esperimento ben riuscito supportato dal capitale privato virtuoso, la fortuna della Silicon Valley si fonda sull’interazione tra tre agenti: un settore privato virtuoso, il settore della ricerca- in particolare il dipartimento di ingegneria elettronica dell’Università di Stanford- e infine lo Stato Federale.

Non è un caso isolato: come studiò già negli anni ’80 Ergas gli USA applicano un modello detto Mission Oriented Project. L’esempio più semplice riguarda l’allunaggio. A quel tempo gli Stati Uniti erano in aperta competizione con l’URSS per mandare il primo uomo sulla Luna. Al fine di raggiungere l’obiettivo la cooperazione tra NASA e settore privato non solo portò alla raggiungimento del traguardo nel luglio del ’69 ma a vari spillover nel settore privato, ad esempio nei sistemi di calcolo sviluppati da IBM.

È la cosiddetta politica industriale, ovvero gli interventi del governo per supportare l’industria e l’innovazione. Come però ha fatto notare Jean Tirole gli economisti sono scettici nei confronti della politica industriale- soprattutto, per entrare sul tecnico, rispetto a quella orizzontale e alla scelta dei campioni nazionali. Negli ultimi anni però si sono fatti dei progressi sia dal punto di vista teorico sia empirico. L’economista di Harvard Dani Rodrik ha fatto notare che vi sono gli estremi per giustificare una politica industriale più interventista, in quanto il depauperamento di certi territori comporta dei costi sociali, ovvero esternalità negativa.

La penetrazione della Cina negli Stati Uniti d’America, ad esempio, ha favorito l’ascesa di Trump e di movimenti nazionalisti che hanno portato dolore e sofferenza a milioni di persone- immigrati, donne, omosessuali, transgender.

Anche a livello empirico, soprattutto dopo l’esperienza di catch up della Cina e della Corea del Sud, si sta riorientando il dibattito, come dimostra una proposta recente dell’economista del MIT John Van Reenen che punta proprio a questo.

Ma c’è anche un’altra via, più interessante dal punto di vista teorico. Nonostante la teoria sui fallimenti di mercato abbia fornito soluzioni e intuizioni ottime, resta una teoria confinata nel campo dell’equilibrio economico. A partire dagli anni ’80, riprendendo i lavori paradossalmente di economisti liberisti come Hayek e Schumpeter, si è andata consolidando una corrente detta evolutiva che rigetta la tendenza all’equilibrio insita nella teoria neoclassica. I lavori di Nelson, Winter e di Giovanni Dosi hanno gettato le basi per un approccio dinamico alla crescita e al progresso tecnologico, concentrandosi sulle routine, la conoscenza tacita, i paradigmi tecnologici.

Proprio Dosi, negli ultimi anni, ha cercato di coniugare gli insegnamenti degli evolutivi con quelli di John Maynard Keynes, assieme a economisti come Andrea Roventini, Mauro Napoletano, Giorgio Fagiolo, sfruttando moderne tecniche di simulazioni numeriche come i Modelli ad Agenti.

Ma ad aver portato questi sviluppi teorici al grande pubblico è stata l’ex consigliera economica del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, Mariana Mazzucato. Direttrice del Centro per l’Innovazione e il Valore Pubblico all’University College di Londra, Mazzucato è l’autrice del saggio Lo Stato Imprenditore che mostra come, storicamente, il ruolo dello Stato non è stato solo quello di intervenire in caso di fallimenti del mercato, ma anche di creare questi mercati.

In Italia il discorso è complesso per almeno due motivi. Il primo è l’ingente debito pubblico ereditato dagli anni ’80, in cui la spesa pubblica venne usata a fini clientelari. Il secondo, strettamente collegato, è l’esperienza del colosso industriale dell’IRI, privatizzato negli anni ’90: l’IRI aveva smesso di funzionare come motore della crescita ed era diventato una macchina obsoleta.

Non solo: i limiti dettati dall’Unione Europea sono stringenti.

Sia sul rientro dell’enorme debito pubblico sia sugli aiuti di stato. Se su quest’ultimo tema si è aperta una discussione in senso all’unione proprio per contrastare la concorrenza estera, sulla questione debito si fronteggiano posizioni opposte. Da una parte i paesi del sud dell’Europa come Italia e Francia, che puntano a un allentamento delle regole sul deficit, dall’altra i falchi del rigorismo come i paesi nordici.

Eppure la comunità economica ha parzialmente cambiato opinione, come dimostra sia il paper di Blanchard e Pisani Ferry sia le proposte del gruppo di Giavazzi e di quello di Saraceno e Amato. Anche il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha sposato una tesi simile: la strada per ridurre il debito non passa attraverso più austerità, ma dalla crescita. Per questo è necessario capire quali progetti vale la pena finanziare e quali no.

Qui arriva un altro inconveniente: per quanto lo Stato sia necessario per l’economia, spesso dà vita a inefficienze. La politica vorrà mettere le mani sul tessuto economico- cosa che in realtà fa anche in un contesto di libero mercato.

Tra il dire e il fare, quindi, ne passa. Un modello vincente sembra essere quello dell’agenzia americana Darpa. Nominare commissari provenienti dal mondo accademico o comunque tecnico in grado di valutare, costantemente, i progetti e il loro sviluppo.

Per quanto detto, Sassuolo e il distretto ceramico potrebbero essere un esperimento interessante per un ritorno di una politica industriale più decisa nel nostro paese.

I motivi sono svariati: il distretto è già abbastanza sviluppato dal punto di vista industriale ma da anni subisce la concorrenza straniera; è un settore in cui le possibilità di innovazione- al di fuori dei nuovi prodotti come lastre ultra sottili, materiali bioattivi, etc- sono elevate come dimostra già oggi la simbiosi con aziende leader nel settore come System; la vicinanza con aree interne come Pavullo, Serramazzoni, Toano, Castelnovo ne’ Monti che in questi anni sono state depauperate rispetto ai poli; infine la necessità della transizione ecologica.

Si parla quindi di interventi sistemici: partendo da un efficientamento delle strutture stesse e dai forni a gas, con investimenti massicci nei nuovi forni ad idrogeno; la formazione di nuove figure specializzate sfruttando il potenziale di scuole, università e istituti post diploma per formare lavoratori in grado di svolgere lavori nuovi, preparandosi a un’ondata di automazione che non si è ancora mostrata in tutta la sua potenza.

Non solo: il nostro paese vive da ormai tre decenni una profonda crisi nel settore dell’edilizia popolare, un fenomeno che colpisce particolarmente i giovani che si ritrovano a pagare affitti gonfiati. Invece di progetti dispendiosi e a basso valore aggiunto come il superbonus 110% un intervento dello Stato più ampio potrebbe incrociare la produzione del distretto di Sassuolo con le esigenze popolari di giovani e non solo.

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