Industria

Questa “ripresina” non ci salverà se non ricominciamo a parlare di industria

12 Maggio 2015

Si susseguono, da un po’ di tempo a questa parte, i segnali tendenzialmente positivi per l’economia italiana. L’ultima buona notizia è arrivata ieri, dall’Inps, che ha annunciato per il primo trimestre 2015 un deciso aumento delle assunzioni a tempo indeterminato – i “posti fissi” (+24,1%) – grazie agli sgravi fiscali su questo tipo di assunzioni previsti dalla Legge di Stabilità. Facciamo allora un passo indietro, cercando di tracciare un riepilogo – scritto avvalendoci delle notizie pubblicate da “Il Sole 24 Ore” – delle good news degli ultimi giorni, riepilogo che può articolarsi in tre punti principali. Ma la storia non finisce qui, giacché dai dati cercheremo di passare alle interpretazioni, soffermandoci in particolare su quella che, per semplicità, possiamo chiamare la questione manifatturiera.

I fatti, dicevamo. Primo: “L’Istat: finito un triennio di recessione” (venerdì 8 maggio); il riferimento va, in primis, alle nuove previsioni del nostro Istituto centrale di statistica che ora accreditano il Pil italiano di una crescita dello 0,7% in questo 2015 (già previsto dal Governo nel DEF di aprile), cifra destinata a salire all1,2 e all’1,3%, rispettivamente, nel 2016 e nel 2017. Annota giustamente il principale quotidiano economico italiano che si tratta pur sempre di una “crescita debole”, inferiore sia a quella dell’Eurozona (1,6% nel 2015) che a quella dei Paesi avanzati (2,2%). E’ ancora la domanda estera a trainare per quest’anno la crescita, mentre nel biennio 2016-2017 il ruolo guida sarà giocato dalla domanda interna; importante, a quest’ultimo riguardo, oltre a una spesa delle famiglie in crescita, sarà la ripartenza degli investimenti fissi lordi (1,2% nel 2015, al 2,5% nel 2016 e 2,8% nel 2017).

Secondo: “La produzione va oltre le attese” (sabato 9 maggio); in questo caso la buona notizia – riportata sul “Sole” sempre da fonte Istat – è una variazione in marzo della produzione industriale positiva sia rispetto al mese precedente (+0,4%) che su base annua (1,5%), “miglior risultato da aprile dello scorso anno”. Fra i settori che hanno mostrato i migliori risultati, si segnalano i mezzi di trasporto (con una performance particolare dell’auto), la farmaceutica, l’elettronica, la chimica e l’alimentare; il segno meno caratterizza invece le produzioni metallurgiche e la fabbricazione dei prodotti in metallo, nonché i macchinari; una lieve riduzione ha colpito anche il sistema moda (tessili, abbigliamento, pelli). Segnali positivi giungono altresì – conclude l’articolo – dalle rilevazioni congiunturali del Centro studi Confindustria (CsC), che segnalano un trend positivo destinato a proseguire.

Dopo i dati, qui sinteticamente richiamati, la domanda d’obbligo diviene: bastano queste good news per dimostrare che il Paese si è finalmente incamminato su un nuovo sentiero di crescita duraturo e non effimero? Sarebbe un grave errore sottovalutare il messaggio che viene dalla crescita del Pil, della produzione industriale e, da ultimo, della stessa occupazione ma, al tempo stesso, non conviene commettere l’errore contrario; ossia, sovrastimare queste cifre e tendenze dato che la crisi seguita al grande crac del 2008 non è passata invano. Purtroppo. Una parte consistente del sistema produttivo-manifatturiero s’è perduta per sempre perché la selezione darwiniana non è uno scherzo; un’altra parte di questo sistema viaggia a velocità ridotta; infine, una parte – per fortuna – è cresciuta, ed è quella che innova e guarda sempre più ai mercati esteri. Grande cautela, quindi: è un’analisi di Paolo Bricco, uscita sul “Sole” proprio lo stesso giorno dei dati Istat sul Pil, a dirci che: “Fabbrica Italia è ancora sotto del 40%. Poco assorbimento di manodopera” (8 maggio).

Già, l’occupazione (il terzo e ultimo punto della nostra breve ricostruzione dei fatti), tema al quale “Il Sole 24 Ore” dedicava l’editoriale – a firma di Luca Ricolfi – di domenica 10 maggio. Dopo un’accurata analisi dello stato dell’arte (è nel settembre 2013 “che l’occupazione totale raggiunse il suo punto di minimo, con la distruzione di più di 1 milione di posti di lavoro rispetto al picco del 2008”) e del “lento recupero” (che, appunto dal settembre 2013, si era messo in atto), Ricolfi sottolinea gli aspetti problematici dell’attuale situazione. Egli, infatti, scrive: “Questo lento recupero è andato avanti più o meno fino alla fine dello scorso anno, ma si è bloccato nei mesi a cavallo fra il 2014 e il 2015”. E ancora: “Come è possibile che sia il governo sia l’Istat prevedano, per la fine di questa legislatura (ossia dopo 4 anni di cura-Renzi), un numero di disoccupati che ancora sfiora i 3 milioni di unità?”.

Ricapitolando: luci e ombre caratterizzano, oggigiorno, un po’ tutti gli ambiti della vita economica italiana (Pil, produzione industriale, occupazione, etc.), e forse è naturale che sia così. Nessuno, certo, ha la sfera di cristallo; a ogni buon conto, gli anni (decenni) passati ci hanno insegnato che le previsioni – anche le più autorevoli – si rivelano spesso errate; per non parlare, poi, delle granitiche certezze di molti sulla capacità di autoregolazione dei mercati, che sovente non trovano conferma nella (dura) realtà dell’economia reale.

Non c’è, dunque, per i responsabili della politica economica, nulla di nuovo e di diverso da fare, se non assecondare i gettonatissimi – si passi l’espressione – fattori esogeni positivi (basso prezzo del petrolio, QE, cambio euro/dollaro più favorevole …)? Le cose, si sa, sono un tantino più complicate. Che si condivida o meno l’impianto del Jobs Act, è difficile sottacere l’importanza che esso ha avuto nello stimolare, anche in Italia, una riflessione culturale e politica sul lavoro nel mondo che cambia. Lo stesso può dirsi per altri temi di assoluto rilievo nelle politiche pubbliche: l’austerità e le tasse. Beninteso, non sempre – negli ultimi anni (decenni) – le appropriate decisioni di governo sono poi arrivate ma il dibattito – sia nel mondo accademico sia in quello politico-istituzionale – c’è stato, e c’è tuttora.

Dove invece il discorso pubblico ha, fino a oggi, mostrato tutta la sua inadeguatezza è sul tema dell’industria manifatturiera e della sua centralità nella crescita economica di un Paese: la questione manifatturiera evocata al principio dell’articolo. L’omissione è particolarmente grave per un Paese come l’Italia, “seconda manifattura d’Europa, dopo la Germania”, come politici di ogni schieramento ripetono quasi a mo’ di ritornello. La questione è che una classe dirigente non può fermarsi lì, a prendere atto dell’esistente; le élite dovrebbero sforzarsi di adeguare istituzioni e politiche in direzione del Modell Deutschland, a cominciare da quell’area che va sotto il nome di Nuova Politica Industriale, finalizzata soprattutto agli “investimenti in conoscenza” (R&S, capitale umano, Ict). Non va dimenticato che in paesi/regioni a forte vocazione industriale opera una sorta di “moltiplicatore manifatturiero”, nel senso che da un’incidenza dell’industria sul Pil, poniamo, del 25-30% si passa a un’incidenza nell’ordine del 75-80% quando si valuti il contributo che da quest’attività economica deriva alla R&S e alle esportazioni.

Più di un esempio delle cose, qui e ora, possibili lo troviamo nell’articolo di Romano Prodi, Otto proposte per la rinascita dell’industria (“Il Messaggero”, 22 giugno 2014, disponibile anche su www.romanoprodi.it), che in molte delle sue proposte (l’Istruzione tecnica, il Fraunhofer Institute, le Fondazioni di famiglia, e così via) si rifà, non accidentalmente, all’esperienza tedesca del “capitalismo renano”.

Perché, ci domandiamo giunti a questo punto, il grande assente dal discorso pubblico italiano è malauguratamente il binomio Manifattura-Politica industriale, fatte naturalmente salve le solite lodevoli eccezioni? Una parte di responsabilità la porta il mondo accademico, che per un arco temporale piuttosto lungo ha relegato l’indagine empirica e lo studio dei settori/distretti industriali – per usare un educato eufemismo – in un angolino, considerandoli démodé. In verità, quel tempo lo stiamo ancora vivendo ma con un pizzico di ottimismo possiamo spingerci ad affermare che le cose stanno iniziando a cambiare, come la numerosità e l’ampiezza delle ricerche in corso – in Italia, in Europa, negli Usa, etc. – dimostrano.

Lasciando per un attimo da parte ciò che potrebbe apparire una semplice querelle accademica, resta la necessità di una risposta generale alla domanda su quello che abbiamo già definito il grande assente nel dibattito italiano di politica economica (vorrei dire, di politica tout court). Qui si possono fare solo delle (ragionevoli) ipotesi. La mia impressione è che l’ossessiva attenzione al “particulare” di larghi settori della classe dirigente, gli egoismi di casta e di categoria, lo strapotere delle lobby (piccole e grandi, visibili e invisibili) siano l’ostacolo fondamentale.

Difatti, la manifattura, al fine di poter evolvere verso la frontiera del progresso tecnologico e verso produzioni (high-tech ma anche tradizionali e tipiche del Made in Italy) a maggior valore aggiunto, ha bisogno di uno sforzo che sia “corale” e, a un tempo, con lo sguardo rivolto al “medio-lungo periodo”. I due Paesi che più ammiriamo – la Germania e gli USA – hanno già da anni avviato lungimiranti iniziative in questo senso: è del 2010 il piano del governo della signora Merkel dal titolo Ideas. Innovation. Prosperity. High-Tech Strategy 2020 for Germany; è del giugno 2011 il lancio, da parte dell’Amministrazione Obama, dell’Advanced Manufacturing Partnership. E parliamo – si badi bene – di due autentici sistemi federali, che però hanno riservato alla competenza dei rispetti governi federali dossier di tale importanza strategica. Poi naturalmente vi sono tanti altri strumenti di sostegno alla manifattura che investono le competenze dei governi statali (regionali), della scuola, dell’università e del mondo della ricerca, del sistema finanziario e dei sindacati.

Di più: deve essere uno sforzo sì corale ma anche rivolto al medio-lungo periodo (la manifattura è intrinsecamente diversa dalla finanza, dove moltissimo si gioca sul breve termine), perché solo mediante un impegno sistematico e lungimirante si può sperare di raggiungere buoni risultati, ad esempio, nel campo della ricerca e dell’innovazione, la chiave di volta per competere nel capitalismo del XXI secolo e fronteggiare la nuova “sfida asiatica”.

Ora, uno sforzo corale – ma guidato dal centro – e una visione di lungo periodo sono i due ingredienti mancanti nella ricetta italiana. Laddove c’è una responsabilità in prima persona di Berlino e Washington, noi abbiamo le disposizioni del Titolo V del 2001, che hanno giocoforza portato a una eccessiva frammentazione degli sforzi fra Roma e i 20 (venti!) capoluoghi regionali, e dentro a ciascuna regione alla cura, appunto, del “particulare”. Il tutto aggravato da quell’instabilità (leggi: ottica di breve termine) che appare la cifra distintiva della politica italiana, dove – anche qui da anni e anni – abbondano gli inventori di contenitori e scarseggiano i pazienti tessitori di contenuti. La speranza è che il combinato disposto – voluto dal governo Renzi – delle riforme istituzionali (con un nuovo Titolo V accanto alla trasformazione del Senato in Camera delle Autonomie) e della riforma elettorale dia al Paese un’architettura istituzionale più stabile e moderna.

Resta sempre vero, tuttavia, che le idee camminano sulle gambe degli uomini, e il salto vero verso il nuovo il Paese lo compirà soltanto quando recupererà, grazie innanzitutto all’esempio che le sue élite sapranno dare, quello spirito comunitario che ha man mano perso per strada.

Sarà un caso, ma il “Modello Germania” – prima manifattura d’Europa e fra le primissime al mondo – prospera sullo stesso terreno ove sono nati, molti decenni fa, l’Ordoliberalismo e l’Economia sociale di mercato. Sia l’uno che l’altra, lungi dal voler abbandonare un sistema volto alla concorrenza, hanno contribuito a plasmare un “modello” in cui lo Stato corregge con intelligenza le asperità del mercato, e in cui ci si sforza di integrare l’individuo (la persona) nella comunità. Il resto, che è moltissimo (la cogestione all’interno delle imprese, un Welfare universalistico, la centralità dell’istruzione tecnica, la lotta ai monopoli e, più vicino a noi, le riforme di “Agenda 2010” del governo Schröder, etc.), vien da sé.

 

(Foto di Paolo Margari, Flickr, Creative Commons)

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