Industria
La fabbrica davanti a sé
Da qualche settimana, il sindacato dei metalmeccanici CISL del Veneto (FIM CISL) ha divulgato su Youtube un video dal titolo «Chi ha paura del cambiamento?».
È la narrazione di una visita fatta a metà marzo nella fabbrica vicentina di una grande impresa metalmeccanica che ha siti produttivi in tutto il mondo. In undici minuti descrive come sarà il lavoro industriale del futuro, usando le parole dei delegati sindacali con lunga esperienza e quelle di un gruppo di studenti dell’Istituto Tecnico Superiore Meccatronico del Veneto (una delle scuole post diploma di nuova istituzione ad alta specializzazione tecnologica), e del corso di laurea triennale in Economia dell’Università di Padova.
È una iniziativa coraggiosa e illuminata, per varie ragioni.
Il nostro è un Paese che deve tutto alle fabbriche, ma in cui fin dagli anni ’70 si cantava che «anche l’operaio vuole il figlio dottore». Io stesso sono figlio di quella cultura: mio padre, prima emigrante e poi orgoglioso operaio dell’allora Zanussi di Pordenone, me lo ripeteva ogni giorno.
Quello che stiamo vivendo è un periodo di grande trasformazione manifatturiera e le fabbriche del prossimo futuro saranno per molti aspetti molto diverse da quelle che abbiamo conosciuto.
La generazione dei ventenni di oggi dovrà guidare questa trasformazione e, tra le altre, si dovrà far carico di far lavorare le fabbriche.
È per queste ragioni che è utile provare a capire quali sono le «rappresentazioni del lavoro della fabbrica» che le nuove generazioni hanno in mente.
Da una parte, queste rappresentazioni incidono sulle scelte scolastiche e universitarie e sugli obiettivi professionali verso cui le persone si proiettano. Dall’altra, forniscono agli educatori, ai docenti e ai manager dei processi formativi qualche suggerimento per migliorare efficacia e qualità delle loro attività.
I nostri figli immaginano che il lavoro nella fabbrica del futuro si svolgerà in ambienti, dove la tecnologia non sovrasterà e non opprimerà le persone, ma renderà invece possibile la creazione di mansioni da svolgere in modo sempre meno individuale e sempre più in gruppo.
Sono anche consapevoli che la tecnologia digitale sarà pervasiva, perché «ogni giorno viviamo con l’Internet delle cose». Di fatto, questi giovani reclamano implicitamente nuovi modelli didattici che li aiutino a sviluppare le competenze digitali e relazionali e, senza saperlo, pensano che il mondo sarà abitato dai lavori ibridi. Varie ricerche dimostrano che sono sulla strada giusta.
Per alcuni dei ventenni intervistati, l’esperienza dello scorso marzo è stata la loro prima volta dentro uno stabilimento industriale.
Fa un certo effetto sentirli dire di aver provato l’ebbrezza di «sentire gli odori della fabbrica» e di aver preso consapevolezza che «dietro ogni macchinario, ogni processo c’è sempre una persona con motivazioni, con emozioni, che vanno tutelate e vanno protette».
È illuminante sentirli affermare che nei loro percorsi formativi «quando si spiegano i sistemi di produzione, non si parla mai di lavoratori», e sottolineare «non vedevo l’ora di entrare in una fabbrica, per essere sicura che mi piacesse quello che sto studiando».
Dietro ai loro commenti, ci sono la necessità improrogabile di rendere l’alternanza scuola-lavoro una realtà effettiva, capillare e sistematica e la richiesta di riprogettare i contenuti formativi.
Agli occhi di questi giovani, il sindacato è un perfetto sconosciuto.
Uno di loro, pur avendo fatto il «sindacalista degli studenti» e ricoperto ruoli importanti come rappresentante negli organi di governo dell’Università, ha detto di aver avuto «dei pregiudizi sui sindacati, anzi più che pregiudizi avevo una mancanza di giudizi».
Un’altra ha rinforzato il concetto con uno sconsolato «ci sentiamo un po’ abbandonati». Il sindacato riparta da queste oneste dichiarazioni, le analizzi, faccia un po’ di autocritica ed elabori una strategia per ricostruire il rapporto con i lavoratori del futuro: FIM CISL Veneto ha coraggiosamente iniziato e farlo ed è auspicabile che non resti sola.
Per completare questo quadro vien bene dare qualche pennellata con i dati pubblicati un paio di settimane fa da Istat e da Almalaurea. I primi ci segnalano che tra le persone con meno di 34 anni, quasi sette su dieci (68%) vivono ancora a casa con i genitori. I secondi ci dicono che alcune regioni del Nord, un anno dopo aver portato a termine ben cinque anni di Università il 24% dei neolaureati è ancora senza lavoro e quelli che hanno un impiego ricevono mediamente 1.134 euro lordi al mese.
I giovani protagonisti di «Chi ha paura del cambiamento?» non se lo meritano.
Meritano invece di essere ascoltati, coinvolti e fatti partecipare. Meritano di essere messi in prima fila e in ruoli da protagonisti e non relegati in ruoli da comprimari.
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