Industria
Ilva, il rischio di ripetere il disastro fatto a Piombino
La storia dell’ILVA sembra la copia in grande stile della già disastrosa storia dell’acciaieria di Piombino. Stavolta in campo ci sono attori di livello, ma il finale rischia di essere tristemente simile.
Come abbiamo avuto modo di raccontare in precedenza (v. qui e qui), Piombino è stato un disastro annunciato: un’acciaieria affidata al distributore di frutta e verdura algerino Rebrab, ammesso dopo lo scadere dei termini, a scapito dell’acciaiere indiano Jindal. Solo perché Rebrab prometteva di impiegare tutti i 2.200 dipendenti, promessa grottesca, perché era impossibile economicamente da soddisfare, visto che l’acciaieria avrebbe fatto fatica a stare in piedi con un terzo dei dipendenti. C’era evidentemente l’incapacità progettuale di Rebrab o la disponibilità di Rebrab a raccontare quanto occorreva al fine di aggiudicarsi l’impianto siderurgico, forse perché l’interesse era mettere le mani sulla logistica e sul porto. Il bravissimo giornalista Claudio Gatti ha raccontato in dettaglio la farsa della procedura su Piombino e le relative responsabilità, ipotizzando implicitamente che l’interesse di Rebrab fosse investire i suoi soldi fuori dall’Algeria. Fatto sta che oggi l’acciaieria è sostanzialmente ferma, i miei amici a Piombino sono disperati perché l’economia locale è disastrata.
Più grave dei salti pindarici di Rebrab è la disponibilità degli organi preposti e delle istituzioni ad accettare queste fantasie come promesse plausibili, su cui basare l’aggiudicazione dell’acciaieria e il futuro di oltre 2.000 famiglie. Le fantasie di un distributore di frutta e verdura contro l’esperienza di uno dei principali acciaieri al mondo. Non sono un acciaiere, sono un banchiere, eppure ho denunciato che gli eventi a Piombino erano grotteschi e che c’era una chiara responsabilità delle istituzioni, a fronte del disastro evidente. Non avrebbero potuto dire che non era ipotizzabile, se me ne ero accorto anche io che poco conosco l’acciaio, con tanto anticipo.
Alessandro Profumo (ora a capo di Equita Sim) ha ricevuto mandato per trovare finanziamenti o vendere l’acciaieria, contando forse sull’imbarazzo dei politici (e sul loro supporto). Nessun risultato, finora. Rebrab, supportato da un personaggio la cui identità vorrei conoscere per valutarne la natura, è riuscito ad agganciare l’industriale siderurgico indiano Sajjan Jindal e conta di convincerlo a guardare nuovamente a Piombino. Rebrab si farebbe carico dell’eccesso di personale. Purtroppo ormai il danno è fatto: il blocco dell’acciaieria comporta una perdita di clientela, difficile da recuperare.
Quello che il dramma di Piombino insegna è che queste promesse non possono essere date per certe ex ante, quindi bisogna valutarne in modo attento la credibilità e non prenderle come fatti. Il problema di Piombino era e permane la grave negligenza delle nostre istituzioni e degli organi preposti, che dovrebbero avere a cuore e salvaguardare il futuro delle oltre 2.000 famiglie la cui vita dipende dall’acciaieria. A nessuno è stato, per ora, chiesto conto di questo grave errore. Provo ad indovinare: tutti sperano nell’intervento di Jindal per evitare che si valutino le responsabilità che hanno concorso al disastro.
Il disastro consumato a Piombino potrebbe però essere solo l’antipasto del dramma che si sta per consumare sull’ILVA. A differenza di Piombino, ILVA è un pezzo importante della siderurgia italiana. Impiega 14mila dipendenti, circa 7 volte i dipendenti di Piombino, è uno degli impianti più competitivi di Europa per economie di scala e posizionamento favorevole dal punto di vista logistico. È un gioiello dell’industria italiana, è importante per la competitività di tanti settori italiani che ne impiegano i prodotti. Come Piombino, l’ILVA è essenziale per il benessere economico del territorio. Peccato che inquini troppo e quindi che, in assenza di un diverso approccio alla produzione, i danni che provoca alla salute della popolazione superino i benefici economici.
Anche a Piombino ritroviamo Jindal, però questa volta si scontra con un colosso della siderurgia, Arcelor Mittal, affiancato dal Gruppo Marcegaglia.
Jindal alla prima uscita pubblica ha promesso un rilancio alla grande dell’ILVA: 12 milioni di tonnellate con una tecnologia, basata sull’uso del gas, che promette di salvaguardare la salute delle persone e di sviluppare significative economie di scala. Questo renderebbe l’ILVA super competitiva (economie di scala e competitività crescono esponenzialmente con i volumi) ed eleverebbero lo standard ambientale di riferimento per tutte le acciaierie d’Europa. Jindal ha risposto con i fatti al programma di de-carbonizzazione della Puglia proposto da Emiliano. Arcelor ha risposto che sono tutte fantasie e che il programma è irrealizzabile. Jindal ha portato un gruppo di giornalisti in India e ha mostrato che quanto racconta è realtà, sia per il gas, sia perché catturano e “pallettizzano” (riducono a piccole mattonelle) le polveri dannose che tanti problemi creano a Taranto.
Allora perché temere il peggio?
Primo. Vedo il ripetersi di promesse formalmente perfette fatte per ottenere l’aggiudicazione e incoerenti da parte di Mittal e mi chiedo quanto siano fondate. Prima 6 milioni di tonnellate di produzione (guarda caso il limite, poi saltato, posto dai tecnici del Ministero dell’Ambiente per i volumi produttivi dell’ILVA a dispetto del decreto sulla cessione di ILVA che prevedeva 8 milioni di tonnellate). Poi nell’offerta 9,5 milioni di tonnellate. Variazioni che per l’ampiezza ricordano le promesse di Rebrab: ditemi quanto devo scrivere per prenderla. Per incrementare i volumi Arcelor dovrà portare semilavorati da altri impianti, quindi sono solo volumi senza profitti attaccati? Poi: ma al Gruppo Arvedi, che è in cordata con Jindal, conviene questo incremento di capacità visto che sarebbe il primo a pagare in termini di concorrenza sui prodotti piani?
Secondo. Vediamo Intesa Sanpaolo, il maggiore creditore di ILVA e anche del Gruppo Marcegaglia che prende posizione a fianco di Arcelor- Marcegaglia, che dovrebbe essere più italiana. E mi viene da pensare che facciano l’ennesima “genialata” dopo quella su Generali. Mittal ha 85%, Marcegaglia il 15%. Jindal ha il 35%, i suoi partner italiani il 65%. L’italianità non torna. Lo faranno per salvare la Marcegaglia e il loro credito verso l’ILVA. Il ragionamento sarà: se Arcelor Mittal investe 1,5 miliardi di euro sull’ILVA (e speriamo 2,3 miliardi di investimenti) non la vorrà chiudere. E avrà promesso di farsi carico anche del partner Marcegaglia a cui magari nel frattempo ha dato tanto credito. Ma non torna neanche questo. I vantaggi per Arcelor nel non far finire ILVA nelle mani di un concorrente temibile come Jindal (per la concorrenza che farebbe entrando sul mercato e per l’innalzamento degli standard ambientali) superano di gran lunga il prezzo da pagare. Quindi temo che gli gnomi di Intesa possano trovarsi con un bubbone più grande dopo, al primo problema ambientale (probabile con l’uso del carbone) o alla prima inversione del ciclo economico. Qui però Arcelor Mittal è furbo e se decide di ammazzare l’ILVA lo farà lentamente. Jindal, invece, aumentando realmente i volumi di ILVA, potrebbe risolvere i problemi della Marcegaglia, basterebbe darle da lavorare quello che ILVA non può gestire all’interno con l’attuale capacità produttiva. E, soprattutto, avendo solo quella di posizione in Europa, dovrebbe sostenerla. Ai banchieri insegnano a valutare l’allineamento di interessi. Ma in Intesa l’hanno considerato?
Terzo. Leggo l’intervista di Fabio Gallia, amministratore delegato della Cassa Depositi e Prestiti, secondo cui la CDP avrebbe già vinto perché comunque vada l’ILVA ormai è salva. Magari fosse vero dal punto di vista economico e magari fosse vero anche per la salute dei tarantini con il carbone. Mi viene il dubbio che in vista della privatizzazione, sia meglio per CDP non dare fastidio ad Intesa e alla Fondazione Cariplo. Mi viene il dubbio che in vista della due diligence, dopo tanti investimenti discussi (Bonifiche Ferraresi, Saipem, Rocco Forte,…) sia meglio evitare di investire quattrini in ILVA. I miei colleghi banchieri mi riferiscono che alcuni partner di Jindal ci credono poco alla vittoria, ormai.
Quarto. Raccontano che alcuni partner non vogliono neanche far parlare Jindal con la stampa o con chi può aiutarlo. Il TG1, a cui era stata cancellata un’intervista, si è presentato all’incontro di Acciaitalia con i sindacati ed è stato respinto dalla Morselli, CEO di Acciaitalia. Jindal ha sorpreso tutti facendosi intervistare. Questo è il servizio pubblico per cui vale la pena di pagare il canone. La voglio proprio vedere questa intervista domani. Non sia mai che dica qualcosa di buono. Magari potrebbe diventare ancora più simpatico e qualcuno potrebbe chiedersi perché non gli si permette di parlare con i soggetti che sarebbero essenziali per vincere.
Quinto. Non bastasse il fatto che il principale creditore di ILVA che affianca Mittal, girano voci di crediti di ILVA per 150 milioni verso qualcuno degli offerenti. Girano voci che vi fossero in passato crediti commerciali a garanzia di contratti sull’energia. Girano voci di advisor che cambiano ruoli. Con la politica che non esiste e un Governo debole, si sentono cose strane e chi ci guarda affinché non distorcano il risultato finale? Soprattutto, chi guarda alla credibilità delle promesse?
Sesto. Le autorità europee hanno imposto che nell’asta per l’aggiudicazione dell’ILVA il prezzo abbia un peso pari al 50% del punteggio complessivo. Non dunque il piano ambientale, che dovrebbe essere una condizione per l’ammissibilità delle proposte, ma il solo prezzo, che può invece indicare anche un elevato valore economico connesso con la chiusura, riducendo l’efficienza media di settore e quindi della competizione – elemento questo che dovrebbe essere caro ai burocrati europei. Se proprio si voleva dare un peso elevato a un parametro finanziario, il fattore del 50% andava applicato alla somma di prezzo e investimenti, così da favorire chi vuole sviluppare l’azienda e tutelare l’occupazione. La solita tecnocrazia europea impone dunque principi con poco senso economico o con poca attenzione ai reali benefici per la popolazione: è esattamente questa l’Europa che non voglio, quella che fa danni reali all’interesse del Paese.
Non conoscevo Jindal prima di queste vicende e confesso che sono rimasto impressionato dall’arrivo di un imprenditore con una visione nuova e la voglia di investire in un paese da cui i capitali scappano. E soprattutto per il rispetto per le persone e la comunità in cui opera. Abbiamo bisogno di imprenditori così per il rilancio del nostro Paese. Solo investendo con coraggio e innovando si dà speranza ad imprenditori e alle nuove generazioni e si pongono le basi per mantenere la competitività del paese. Altrimenti ci ridurremo, come ci vedono alcuni circoli sovranazionali: un paese in cui fare svernare i vecchi d’Europa, una volta che la nostra manifattura sarà stata azzerata in modo pianificato.
Se nelle massime istituzioni italiane, qualcuno non si sveglia e non dà una mano agli indiani di Jindal che sembrano bravi ma anche un poco imbranati, l’acciaieria italiana rischia di affogare nella palude dei giochetti delle lobby italiane.
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