Industria
Il Rinascimento Manifatturiero Italiano, una speranza da sostenere
All’inizio degli anni Novanta sembrava che fosse scoccata l’ultima ora per il manifatturiero italiano. I commentatori si dividevano in due campi, a seconda di come vedevano il bicchiere: mezzo pieno o mezzo vuoto. I primi, più ottimisti, inebriati da quanto accadeva negli USA o nel Regno Unito, ripetevano che il futuro dell’economia italiana era nei servizi, e prevedevano la terziarizzazione dell’industria; a loro parere il manifatturiero, nel XXI secolo, avrebbe avuto un ruolo ancillare. I secondi, più pessimisti, si soffermavano invece sul dramma della deindustrializzazione italiana, focalizzavano la loro attenzione sul calo degli investimenti fissi e dell’occupazione, e auspicavano profondi cambiamenti strutturali (inclusa una più forte presenza delle banche nel sistema delle imprese).
Oltre un quarto di secolo è trascorso da allora, e oggi abbiamo un’Italia molto diversa da come se la immaginavano i commentatori del tempo. Di sicuro alcune aree del paese hanno subito una vera e propria deindustrializzazione, specie in alcune aree del Nordovest e del Sud. Ma è altrettanto vero che l’Italia è uno dei cinque paesi del mondo (insieme a Germania, Corea del Sud, Giappone e Cina) a vantare in modo strutturale un surplus manifatturiero superiore ai 100 miliardi di dollari.
Nel 1980 eravamo settimi, a livello internazionale, quanto ad output manifatturiero; nel 2015, eravamo ancora settimi. E negli ultimi vent’anni, a dispetto del boom industriale dell’Asia e della rivoluzione delle ICT, siamo riusciti a difendere con successo la nostra posizione di secondo esportatore manifatturiero d’Europa (dopo la Germania Exportweltmeister, ovvio).
E se è vero che il Triangolo industriale degli anni Sessanta è andato in pensione, oggi esperti e imprenditori parlano di un Nuovo Triangolo Industriale tra Milano, Padova e Bologna, in grado di competere sui mercati internazionali grazie a prodotti ad alto valore aggiunto, spesso tecnologicamente avanzati. Nelle tre regioni in questione, cioè Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, hanno sede oltre 200mila aziende manifatturiere: un numero impressionante. Una parte significativa di queste PMI ha saputo fare il salto, puntando sull’innovazione, sul design e sull’export, e oggi rappresentano vere e proprie eccellenze internazionali.
Ma le buone notizie non vengono solo dalle aziende del Centronord. Segnali positivi arrivano anche dal manifatturiero del Mezzogiorno, ad esempio dal distretto aerospaziale pugliese, che in questi anni ha dato prova di grande dinamismo, o da distretti dell’industria agroalimentare come quello della bufala in Campania. E ancora, si moltiplicano, in tutto il paese, le startup innovative in settori cruciali del nuovo manifatturiero come il digital manufacturing, la smart mobility, la robotica, l’IoT.
Del resto, il famigerato deficit italiano della produttività, che tanto ha rallentato (e continua a rallentare) la crescita della nostra economia negli ultimi decenni, non è certamente imputabile al manifatturiero. Anzi, dal 2000 a oggi il valore aggiunto per ora lavorata del manifatturiero è aumentato del 16% (è invece calato sia nel settore dei servizi, che in quello – fondamentale per l’occupazione – delle costruzioni). Il perché è presto detto: a causa della globalizzazione, e della massiccia industrializzazione di Estremo Oriente, Asia del sud ed Europa centrale, le aziende manifatturiere nostrane sono state costrette a competere con tutte le loro forze. E come dice il proverbio, ciò che non uccide fortifica.
In altre parole, oggi il manifatturiero è una delle grandi forze vitali dell’economia nazionale. Non a caso è finalmente cambiata la percezione culturale e sociale che si ha di esso. C’è stata una riscoperta del saper fare italiano, e della grande tradizione artigiana, tecnica e tecnologica di un paese che è manifatturiero sin dal Medio Evo (non potrebbe essere altrimenti: siamo un’economia di trasformazione, povera di materie prime; fuori dai grandi flussi commerciali non possiamo prosperare).
Il risultato è che oggi è in corso quello che è stato definito un “Rinascimento manifatturiero italiano”. Un Rinascimento che conferisce nuovo slancio a distretti consolidati (ad esempio quello dell’occhialeria nel bellunese, o della termomeccanica nel padovano), e rende possibile la nascita di nuovi poli industriali in settori quali l’automotive 4.0, la meccatronica ecc.
Questo “Rinascimento manifatturiero italiano” è la principale promessa di prosperità per gli italiani di oggi, e di domani. Perché il manifatturiero evoluto non solo permette di realizzare prodotti ad alto valore aggiunto, competitivi sui mercati internazionali, ma è un volano di innovazione straordinario, e per giunta è anche di difficile delocalizzazione.
Tuttavia il fatto che il manifatturiero italiano se la stia cavando nel complesso bene non significa potersi sedere sugli allori. I competitor nordamericani, europei e asiatici sono molto agguerriti, e crescono di giorno in giorno… Le sfide sono molteplici, e dure. Prima di tutto, la costante, intensa trasformazione tecnologica rischia di rendere rapidamente obsolescenti anche i macchinari più sofisticati: un pericolo per moltissime PMI avanzate, che ovviamente hanno budget assai più esigui di quelli di multinazionali e grandi imprese straniere. Ancora, l’R&D richiede molte risorse, e non soltanto finanziarie: per le aziende manifatturiere più piccole, dunque, fare R&D in modo serio è davvero arduo.
Ecco perché è cruciale, per il sistema-paese nella sua totalità (magari coltivando di più le possibili sinergie tra pubblico e privato), investire nella scuola, nell’università, nella formazione professionale, nell’R&D. Non si può avere un manifatturiero competitivo sul piano internazionale senza tecnici, artigiani, tecnologi e scienziati di alto, altissimo livello. Come scrivevo in un precedente post, la scuola di domani «dovrà, sempre di più, insegnare a essere multidisciplinari, creativi e innovativi, e a risolvere i problemi fuori dai soliti schemi». E lo stesso vale per l’università, che è chiamata a formare professionisti in grado di operare in “fabbriche duttili” che hanno come orizzonte il mondo, e come imperativo quella che io chiamo “multi-specializzazione intelligente”. La vera cifra del manifatturiero italiano di successo, infatti, è l’intelligenza. L’intelligenza delle persone che in esso lavorano.
Immagine tratta da Pixabay.
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