Industria
Il manifatturiero globale punta sulla stampa 3D. E l’Italia?
Sembra che la Apple stia valutando la possibilità di entrare nel settore della produzione di stampanti 3D. Infatti come si può leggere nel sito dello US Patent & Trademark Office, nel maggio 2014 la Apple ha fatto richiesta di brevetto per una stampante 3D in grado di stampare un oggetto e, allo stesso tempo, applicare su di esso il colore. Naturalmente una richiesta di brevetto di per sé non significa granché. Ma se davvero la Apple decidesse di entrare nel business, non sarebbe certo l’unico gigante nell’arena. Altre grandi aziende delle ICT come Toshiba e HP, e industriali come GE e Ford, stanno puntando sulla stampa 3D, con significativi investimenti in termini economici e di risorse umane. Senza poi dimenticare che il settore è ben presidiato da aziende veterane (entrambi americane) quali Stratasys, che nel 2014 ha avuto revenues per 750 milioni di dollari, e 3D Systems, che l’anno scorso ha fatto “appena” 653 milioni.
Non è difficile capire i motivi di tanto interesse. A livello globale il mercato della stampa 3D vale già oggi 5,5 miliardi di dollari, ma secondo una previsione targata Wohlers, nel giro di cinque anni si dovrebbe arrivare a più di 21 miliardi di dollari. Un trend di espansione che fa molta gola alle aziende americane, specie in ottica consumer. Oltreoceano infatti c’è la diffusa convinzione di poter ottenere con le stampanti 3D “casalinghe” lo stesso gigantesco successo incassato con i pc e i notebook. Il vero orizzonte però è quello manifatturiero e artigiano. Le stampanti 3D (così come altre tecnologie del digital manufacturing, ad esempio i laser cutter e le macchine CNC), sono degli straordinari amplificatori di capacità. Si è capito, cioè, che la prototipazione rapida è solo uno dei possibili usi di uno strumento che, nelle mani giuste, potrebbe avere un impatto enorme su come pensiamo e facciamo le cose, tanto nelle fabbriche che nelle botteghe e officine.
Faccio un esempio concreto, già citato in un post precedente: la BMW è stata una delle prime aziende manifatturiere europee a dotarsi di macchine stereolitografiche; negli anni Novanta queste macchine erano destinate alla realizzazione di parti delle concept car, ma in seguito il loro uso si è ampliato sino a includere la creazione di pezzi particolari o di ricambio, e di strumentazioni speciali per gli operai. Lo stesso può dirsi per un’altra aziende dell’automotive tedesco, la Opel, che impiega stampanti della Stratasys per sviluppare attrezzi ad hoc con cui migliorare, e velocizzare, il lavoro delle sue maestranze. Non è certo un caso. Da sempre il manifatturiero è uno dei settori più ricettivi all’innovazione. Cent’anni fa la Silicon Valley non stava in California, ma a Detroit, che grazie alla nascente industria automobilistica era una delle aree più innovative del pianeta. E oggi, almeno nelle economie avanzate del mondo, il manifatturiero genera fino al 90% della spesa privata in ricerca e sviluppo.
In un recente rapporto della Gartner, importante azienda di consulenza strategica, si prevede che la stampa 3D avrà il suo impatto più dirompente nei settori della salute e, guarda guarda, del manifatturiero. Per quanto concerne le applicazioni di natura biomedica od odontoiatrica, le protesi dentali fatte con la stampa 3D sono una realtà ormai consolidata, e si ha notizia quasi quotidiana di protesi e persino tessuti biologici realizzati con tecnologie additive. La crescita di questo segmento è destinata a continuare in modo sostenuto, in parallelo con l’acquisizione di maggior velocità e flessibilità delle stampanti 3D, nonché la creazione di nuovi materiali.
Quanto al manifatturiero, Gartner stima che per il 2019 il 10% delle aziende manifatturiere del mondo useranno la stampa 3D per fare pezzi. Si passerà dal “design for manufacturing” al “manufacturing of the design”. Tra le categorie del manifatturiero che beneficeranno di più della diffusione delle tecnologie additive ci sarà il settore della moda e della gioielleria. Che, attenzione, è uno dei pilastri dell’economia italiana. La domanda che sorge spontanea dunque è la seguente: in Italia ci stiamo attrezzando, dal punto di vista culturale e tecno-scientifico, per affrontare al meglio questa svolta del manifatturiero globale? O ci faremo cogliere nel complesso impreparati, rischiando di essere presi in contropiede?
Tuttavia utilizzare al meglio le stampanti 3D richiede un bagaglio di competenze e capacità significativo. Ad esempio, non è uno scherzo trovare creativi che riescano a passare dalla logica dello schizzo bidimensionale a quella della modellazione in CAD e che sappiano sfruttare le enormi potenzialità di questo modello progettuale e produttivo, il tutto senza compromettere lo scopo del loro lavoro, la ricerca della bellezza. Ancora, è necessario avere una mentalità interdisciplinare, sulla scia di quella dei grandi maestri del Rinascimento (Brunelleschi su tutti).
Se lo scenario descritto da Gartner è destinato a realizzarsi (e sembra probabile che sia così), il futuro che aspetta migliaia di imprese italiane sarà quello che già oggi intravediamo. Per farvi fronte, dunque, serviranno nuove scuole e nuove università, nuove tecniche gestionali, nuove professionalità (lo hanno capito molto bene enti come Make in Italy, o la Fondazione Nordest), e – perché no – un approccio diverso alla formazione: le università e i corsi di specializzazione dovrebbero diventare un’opportunità per ampliare e affinare la conoscenza a supporto consapevole, ad esempio, di un business artigianale di alto livello, orientato al mercato globale. Se l’Italia è diventata una potenza industriale, non è stato perché aveva abbondanza di carbone o ferro, ma perché aveva buoni ingegneri, tecnici e artigiani. Lo stesso vale per quanto accadrà con il cambiamento generato dalla stampa 3D e affini.
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