Industria
Esempi di manifattura avanzata che possono salvare l’industria italiana
A Forlì, in una via intitolata a Gramsci, c’è uno studio specializzato nel transportation design a due e quattro ruote che dà lavoro a una quarantina di persone.
Lo studio si chiama Q-id e lavora con alcuni dei brand auto e moto più importanti del mondo. «Il direttore dello stile Ferrari, Flavio Manzoni, ci ha definiti “i contadini del design”: una descrizione che ci calza a pennello – dice Lorenzo Naddei, amministratore delegato di Q-id –. Noi siamo prima di tutto dei creativi pragmatici, abbiamo sempre voluto portare nel processo creativo innovazione, lavoro di squadra e passione. Siamo stati i precursori dello sviluppo di stile su supporto 3D. Probabilmente tra i primi a fare moto in modellazione virtuale sul software Alias».
Ma soprattutto, continua Naddei, «abbiamo scelto di fare il nostro lavoro costruendolo sulle relazioni con i nostri clienti, in particolare con chi concretamente gestisce lo stile nelle aziende. Fare stile è di fatto entrare nell’anima delle aziende, nei loro progetti e sogni più intimi, e solo se c’è stima e rispetto si può creare una base solida per un efficace sodalizio creativo».
Q-id è molto presente in Estremo Oriente. È solo uno dei tanti esempi del successo delle aziende e degli studi di design italiani all’estero. «Persino in paesi che non fanno proprio parte della cultura occidentale, come la Thailandia o il Brunei, il design e la creatività manifatturiera italiana vengono apprezzati» ci racconta ai margini di un evento dedicato al computer-aided engineering, a Vicenza, un gruppetto di designer industriali dal Piemonte. «Per uno straniero essere italiano vuol dire essere creativo», notano. In realtà all’estero si suol dire pure che “Italians talk with their hands”, gli italiani parlano con le mani. Ma se lo stereotipo non è del tutto infondato, è senz’altro vero che gli italiani, con le mani, lavorano. E bene.
Lo dicono i numeri: non soltanto siamo la seconda potenza manifatturiera d’Europa (cosa che molti industriali, in questi tempi di incertezza politico-finanziaria, amano ripetere come un esorcismo), ma siamo l’unico paese occidentale, con la Germania, a registrare in modo stabile un significativo surplus manifatturiero. E in questo il design industriale offre il suo contributo, non piccolo, proprio come lo offre quel fuoco sotto la cenere che sono le PMI manifatturiere innovative. Aziende che magari non fatturano più di 10 milioni di euro, ma che nel capannone, accanto al tornio e alla fresa, hanno macchine a tecnologia additiva, sistemi di scansione 3D, laser cutter e robot. La crisi è stata un’ordalia industriale-umana che ha separato gli innovatori dai conservatori, scaraventando i primi nella stratosfera dell’export esotico, quello verso paesi e territori come il Saskatchewan, la Cechia, l’Aqmola, lo Jiangsu, perché la Francia, il Giappone o la California non bastano più.
«La nostra manifattura ha saputo compiere un grande percorso di riqualificazione – spiega Marco Bettiol, professore associato di economia e gestione delle imprese presso l’Università di Padova –. La crisi è stata molto dolorosa, ma ne sono uscite aziende che oggi sono in grado di essere protagoniste sui mercati globali. Non è un caso se l’anno scorso abbiamo raggiunto una delle nostre vette dell’export nonostante una moneta forte, il fatto che siamo un paese ad alti costi di produzione ecc». Il punto, continua l’economista, è che «le nostre imprese, pur operando in settori “tradizionali” come la casa, la moda, il cibo, la meccanica, sono state in grado di fare un grande balzo in avanti in termini sia di qualità, che di competitività».
Nonostante il nanismo di gran parte del nostro tessuto produttivo, siamo leader mondiali nel tessile-abbigliamento, nella pelletteria, nelle componenti elettroniche, nei macchinari di tipo non-elettronico (si veda, a questo proposito, il Fortis-Corradini Index 2015). E se c’è un elemento che accomuna produzioni così eterogenee, è proprio l’attenzione alla dimensione dell’innovazione e a quella del design, con tutta la sua carica umano-centrica.
Aziende simbolo del made in Italy (su tutte le realtà di punta dell’automotive, come la già citata Ferrari, la Lamborghini o l’Alfa Romeo), hanno sempre saputo fare la sintesi tra le due dimensioni, diventando un modello per il manifatturiero innovativo mondiale; lo prova il fatto che oggi non c’è industrial designer o ingegnere della Silicon Valley che ignori l’opera di Pininfarina, Dallara, Giugiaro. Di recente è stato osservato come mentre la Apple è pesantemente influenzata dal design tedesco (e in particolare dal Bauhaus), Google guardi di più al design italiano degli anni ’60 e ’70.
Un piccolo, interessante esempio del cortocircuito virtuoso tra le due dimensioni si trova in quel di Como, nel parco tecnologico ComoNExT, e si chiama Caracol Studio. Lo studio di recente si è concentrato su un progetto di stampa 3D applicata ai sistemi robotici di tipo industriale, «in via di brevettazione. Se tutto va bene – dice Giovanni Avallone, uno dei fondatori dello studio – entro un paio di mesi avremo una versione beta di questa tecnologia, funzionante in laboratorio, e nei prossimi sei mesi sarà più che operativa».
Con la poliedricità propria di molti studi italiani, i tecnodesigner di Caracol sono impegnati su più fronti: quello spiccatamente R&D, quello dei piccoli lotti industriali, e quello delle collaborazioni (ad alto grado di personalizzazione) con il mondo dell’arredamento. Il loro focus sulla robotica non deve stupire: secondo i dati dell’International Federation of Robotics, l’Italia è decima al mondo e quinta in Europa per numero di robot industriali installati ogni diecimila occupati nel manifatturiero.
«In un’impresa i robot forniscono capacità importanti, e liberano anche dal lavoro di routine, permettendo allo staff di occuparsi di attività a maggior valore aggiunto – aggiunge Bettiol –. Può sembrare un paradosso, ma avere dei robot in azienda significa avere più spazio per il lavoro artigiano, perché vuol dire avere più persone che possono dedicarsi alla personalizzazione, al controllo qualità più avanzato, alla cura del dettaglio, lasciando al robot la parte più gravosa, e più ripetitiva, del lavoro».
Le aziende manifatturiere italiane usano robot, ma soprattutto li producono e li esportano. Stando ai dati Ucimu, l’Italia è il quarto produttore del mondo e il terzo esportatore. Si tratta di un’industria da otto miliardi di euro, che coinvolge quattrocento imprese e dà lavoro a oltre 30mila persone. «Alcuni tra i migliori system integrator del mondo sono in Italia; si tratta di società che prendono il robot e lo adeguano al contesto specifico – continua Bettiol – perché quando esce dalla produzione il robot può fare di tutto, ma di fatto non può ancora fare nulla, deve essere adattato alla specifica realtà produttiva».
Per l’economista, il tandem manifatturiero avanzato-design industriale è centrale per la nostra economia, «ma oggi abbiamo bisogno anche di una serie di nuovi servizi dedicati alle nostre imprese manifatturiere, che presto richiederanno sempre più attività, anche di tipo consulenziale, ad alto valore aggiunto, che le aiutino a declinare il potenziale di queste nuove tecnologie». Insomma, praterie per i giovani ingegneri e i giovani tecnodesigner.
Lo conferma Avallone: «Sia nel mondo del design che in quello dell’industria (perché il primo dialoga in modo diretto con il secondo) siamo in una fase molto fertile, dove il potenziale è enorme. Purtroppo questo non si è ancora capito molto nelle università. Se tu pensi che in una facoltà di architettura o di design degli interni o di design industriale, l’impostazione e i programmi sono ancora gli stessi degli anni ‘70 e ‘80, capisci subito che c’è un intoppo. Tant’è vero che anche noi fatichiamo a trovare delle persone che possano collaborare con noi. Molti designer si formano su programmi vecchi e stantii, non conoscono gli strumenti contemporanei; a volte si tratta di saper usare il software giusto».
Un imprenditore nordestino attivo nell’aerospaziale aggiunge: «Così com’è la scuola italiana non è equipaggiata a valorizzare le risorse e il potenziale manifatturiero di questo paese. E anche l’università deve fare di più, molto di più. Guardi, l’industria può essere l’occasione di riscatto che questo paese cerca da decenni, com’è già successo in Germania, ma al momento il peso è tutto sulle spalle di noi imprenditori, di alcuni prof visionari, di designer che non si accontentano di progettare l’ennesima sedia, di giovani smanettoni autodidatti».
Non sempre però le imprese sono così pronte a scommettere su innovazione, ricerca, sviluppo e design. Per Alberto Bassi, professore di disegno industriale presso l’Università Iuav di Venezia, autore di Design contemporaneo istruzioni per l’uso (Il Mulino), «il tema attuale è capire come questo retaggio storico di reputazione del made in Italy, e di immaginario legato al prodotto italiano, si declini nella condizione contemporanea. Infatti, non tutte le aziende italiane hanno compreso che il valore della propria identità storica è spendibile anche in termini di comunicazione e valorizzazione del prodotto. Amio parere, il tema è proprio come questo retaggio legato al design italiano, si concretizzi nei prodotti, nel modo di distribuirli, venderli, comunicarli».
La battaglia, argomenta Bassi, «non può essere condotta sul prezzo, soprattutto per le nostre Pmi. E allora il ruolo del design dev’essere quello di costruire dei sistemi valoriali differenti, che poggiano non tanto sulla relazione tra costi di produzione e prezzo di vendita, ma su altro». Dalla filosofia di imprenditori tecno-umanisti come Adriano Olivetti al fascino di “agitatori di uomini e problemi tecnici” come Enzo Ferrari, sino al talento degli homines novi della robotica, dell’automotive, del tecnodesign, è proprio questo “altro” che dal dopoguerra a oggi ha continuato a trainare il Pil, l’occupazione, e probabilmente il futuro d’Italia.
Immagine in copertina: Pixabay
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