Imprenditori
Ripensiamo il lavoro approfittando della pandemia
L’emergenza ha almeno un pregio.
Quello di porre domande e di costringere a dare risposte.
E le domande sono tutte rivolte in avanti: l’oggi è il momento dei limiti, di #iostoacasa, dei sacrifici e si spera della solidarietà.
Ma, da animali previdenti, è in queste stesse settimane che avremmo il dovere immaginare una via di uscita dal tunnel per evitare che sia la crisi ad imporci le sue soluzioni.
O meglio che le soluzioni già scritte nei difetti sociali del sistema Italia compiano altri passi in avanti verso direzioni nefaste.
E, paradossalmente, alcuni elementi che abbiamo davanti contengono insieme una suggestione di un futuro migliore e l’idea di uno peggiore.
Facciamo un esempio per tutti: la “scoperta” davvero tardiva del telelavoro.
Con l’esplosione del coronavirus un pezzo dei nostri servizi evoluti si è trovato nella necessità di passare da sistemi e geografie di lavoro tradizionali a quelle digitali: prima del Covid-19 a lavorare da casa in Italia erano il 2% dei dipendenti contro il 20,2 % del Regno Unito, il 16,6% della Francia e l’8,6% della Germania.
Poi con la pandemia in due settimane altri 554.754 lavoratori sono stati mandati a lavorare da casa.
E questo passaggio è avvenuto, purtroppo, con una rete strutturale non pensata per questo (basti pensare che ancora oggi gli italiani esclusi dalla banda larga ad oggi sono poco più che 10 milioni) e quindi messa a dura prova dalla enorme quantità di dati scaricati e transitanti (persino la bella idea della videoteca storica dell’Istituto Luce Cinecittà come della cineteca di Milano di rendere scaricabili i documentari e i film storici ha rischiato di rallentare drasticamente la capacità di download).
Ad aggravare il tutto, prima ancora che una barriera tecnologica, c’è che ancora nel 2020 viviamo in una organizzazione del lavoro niente affatto smart dove mancano protocolli di riferimento contrattuali (si pensi al primo decreto scritto di corsa per consentirne la possibilità quanto più estesa) e tecnico procedurali.
A voler vedere il bicchiere mezzo pieno si potrebbe dire che dopo il “lockdown” un modo di lavorare tanto invocato (non fosse altro che per il bene del pianeta vista la caduta delle emissioni di gas serra e di polveri inquinanti) quanto ignorato, sia diventato di colpo “normale” per molti.
Ora, se questo è positivo in se – e particolarmente positivo per quanto riguarda ad esempio la pubblica amministrazione – dobbiamo anche capire che i nuovi modelli verso cui le imprese si orienteranno specie nel settore dei servizi potrebbero diventare le nuove o più dure gabbie del lavoro di domani.
Sempre che, in diversi casi, non lo siano già e a noi non piaccia rendercene conto.
Sono rimasto molto colpito dal fatto che nella scorsa settimana, quando ancora molti di noi stavamo provando a capire cosa ci stesse succedendo, alcuni amici e colleghi mi abbiano chiamato molto preoccupati.
L’aria che tira già in alcuni settori è che passata la buriana e incamerati i legittimi sostegni all’economia una parte cospicua della forza lavora (magari quella più anziana) possa essere ancora una volta messa da parte.
La telefonata preoccupata di molti amici era perché non pochi fra i loro capi, partner e senior manager, si sfregavano le mani.
Il pensiero di mi ha riportato indietro di oltre dieci anni: a quando due imprenditori se la ridevano sul terremoto.
Ma mors tua vita mea in un Paese ed in un continente lacerato produrrà solo altro odio ed altra paura.
La tentazione – in una imprenditorialità italiana sempre segnata da un desiderio di essere labour saving, tutta improntata ad una flessibilità estrema e con una vecchia vocazione alla deregulation – è che l’idea dello smart working sia utile a costruire una rete lontana (che lasci quindi sempre fuori dai luoghi di lavoro e quindi dal “core” delle imprese) di collaboratori intercambiabili.
Costruire in maniera stabile una costellazione di lavoratori on call: una follia sociale ed economica.
E che alla fine, insomma, il modello sempre più diffuso diventi quello dei riders, i ragazzi che anche in questi giorni e sempre per due soldi, stanno portando nelle case degli italiani la pizza o il sushi che non si possono andare a mangiare fuori.
Un modello che su scala italiana sarà di piccola impresa con un “core” sempre più stretto e un anello orbitante di collaboratori intercambiabili, sempre peggio pagati e costretti ad una gara al ribasso.
Proprio mentre noi avremmo un disperato bisogno di aumentare qualità della produzione e salari.
E allora forse in chi governa, ma anche tra quegli imprenditori che hanno a cuore la qualità del lavoro, dovrà farsi largo prepotente l’idea che la capacità di competere deve fondarsi davvero su un nuovo patto con i lavoratori.
Questa fase che ci porterà alla ripresa deve essere presa sul serio almeno quanto si prende sul serio l’emergenza.
E allora bisognerà dare più fondi e più sostegno a quelle imprese che puntano su rapporti di lavori solidi, che usano bene lo smart working come la digitalizzazione, che puntano sulla conoscenza, sulla formazione, sulla qualità.
Siamo, come succede spesso almeno in Italia, in uno di quei momenti in cui da un evento esterno, drammatico, cogente arriva la spinta ad un mutamento. In altre occasioni (la crisi del 1992, poi quella del 2008-2012) la spinta ci ha portato nella direzione sbagliata almeno dal punto di vista sociale, con una struttura delle imprese e del lavoro di cui tanto ci lamentiamo quando parliamo dei giovani, del precariato dell’incertezza del futuro per le nuove generazioni.
Che riusciremo a fare stavolta?
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