Imprenditori
MES o non MES… ma è davvero questo il problema?
In questi ultimi giorni è riesplosa la polemica, strumentale e politica, sul MES (Meccanismo Europeo di Stabilità). Pur conscio del fatto che su questo tema molti hanno la memoria corta, forse varrebbe la pena di fare un po’ di chiarezza e, oltre a smentire le evidenti fake news, ricordare, non solo quando, ma soprattutto perché è stato creato il MES: parliamo della crisi greca del 2011 generata dalla palese e reiterata “misrepresentation” dei conti del paese (detto più semplicemente: un volgare falso in bilancio).
In quel momento tutti gli stati europei, chi in modo più vigoroso chi meno, avevano chiaro che se da un lato non si poteva lasciare la Grecia a se stessa (seppure alcuni falchi – tedeschi e non – lo avrebbero voluto fare, peraltro con poca lungimiranza anche per i loro stessi interessi) dall’altro non si poteva affidare a un governo che aveva perso qualsiasi credibilità la gestione di importanti risorse finanziarie che la comunità (europea) era disponibile, seppur in modo riluttante, a mettere a disposizione per il bail out del paese. Il controllo della modalità di spesa dei fondi fu così affidato alla cosiddetta “Troika” ovvero a Commissione Europea, BCE e FMI.
Non sta a me disquisire sull’efficacia o meno degli interventi che sono stati effettuati in Grecia – ma anche in paesi quali Irlanda, Portogallo, Cipro così come in Spagna; posso solo dire che nel loro insieme questi risultati non sono stati poi così malvagi, visto che molti di questi paesi hanno poi ripreso a crescere, molto più di quanto non sia accaduto in Italia.
Come cittadino e osservatore italiano devo dire che pensare che la nostra classe dirigente – indipendentemente dal colore politico – abbia la credibilità per farsi dare delle risorse (a debito) e la capacità di gestirle in modo efficace, mi pare sinceramente un azzardo che forse non conviene affrontare. I flussi finanziari che saranno necessari per cercare di ripartire dopo lockdown saranno inevitabilmente ingenti e credere che BCE, Commissione o gli investitori siano disposti a metterli in mano di chi ha un track record molto povero, temo possa essere un’utopia.
Mario Monti, lo scorso 11 aprile sul Corsera, ha fatto un rapido elenco delle circostanze che rendono del tutto irragionevole pensare che l’Italia abbia questa credibilità agli occhi “di risparmiatori e contribuenti tedeschi, che apprendono i seguenti fatti: il governo giallo-verde chiede, nella prima bozza del suo programma, che la Bce condoni all’Italia 300 miliardi di euro di debito pubblico; politici di primo piano dicono «ce ne freghiamo dell’Europa, delle regole europee», «facciamo tutto il disavanzo che vogliamo»”.
Pari perplessità possono destare il frettoloso festeggiamento dell’”abolizione della povertà” e, ancor di più vista la tempistica scelta, l’ennesimo capitolo della saga Alitalia, che pare essere passato inosservato ai più: la recente previsione normativa per preparare la nazionalizzazione di Alitalia. Un’azienda che esigerebbe una vera ristrutturazione profonda, ma che nonostante tre procedure di amministrazione straordinaria e svariati miliardi dei contribuenti bruciati, continua(va) a macinare perdite milionarie senza che nessun, politico voglia prendere atto che si tratta di una azienda che così non può stare in piedi e che infatti, anche prima del Covid-19, non ha trovato alcun serio player di settore interessato a rilevarla. Ci hanno detto che la nuova struttura dovrebbe servire per facilitarne poi la cessione a un privato – ma non possiamo dimenticare che sono anni che, senza qualcuno che si prenda la responsabilità di tagliare seriamente, non si trova nessuno disposto ad accollarsi un’azienda dove le strategie sono esclusivamente di tipo elettorale (ce la ricordiamo la cessione ad Air France fatta saltare da Berlusconi prima delle elezioni per consegnarla ai “Capitani Coraggiosi”).
A differenza di quanto sostengono tutti i politici che si riempiono la bocca di “sovranità”, come cittadino italiano ed europeo sarei ben lieto che coloro che dovranno gestire la cosiddetta Fase 2 (il post lockdown) siano dei tecnici, possibilmente esenti da calcoli elettorali di breve termine e capaci di guardare le vere emergenze dell’Italia – e, temo, di molti altri paesi – post Covid-19. Nel frattempo, però bisogna capire come gestire l’immediato tenendo però presente che, prima o poi, i debiti andranno ripagati.
Qualche proposta ragionevole per il sostegno all’economia:
1) Helicopter Money. La prima e più immediata priorità è quella di permettere ai cittadini meno abbienti di sopravvivere. In questo senso – forse per la prima volta nella mia vita – sono d’accordo con Trump: senza troppe remore è necessario far arrivare sui conti correnti di chiunque abbia un reddito lordo 2018 (quello 2019 non è ancora conosciuto) inferiore a una cifra minima (15/20.000 € ?) un sussidio sufficiente a far fronte alle esigenze minime che deriveranno dalla crisi. Purtroppo, una parte di questo denaro arriverà anche ad alcuni “furbetti” (io li chiamerei delinquenti profittatori) ma nella maggioranza serviranno a evitare un disastro sociale che, senza un supporto serio, temo porterà anche a disordini e violenze che, credo, nessuno auspichi.
Si dovrebbe poi definire se si tratterà di contributi a fondo perduto o se invece potranno essere dei prestiti senza interessi e da restituire in tempi anche lunghissimi (come gli student loans anglossassoni) con un extra sulle imposte da versare negli anni futuri (tipo canone RAI annesso alle bollette) subordinatamente al fatto che il reddito lordo futuro di chi ha percepito il sussidio ecceda una cifra minima ragionevole a garantire un tenore di vita adeguato.
2) Aiutare le imprese incentivandone la capitalizzazione. Anche in questo caso ci vorrebbe un po’ di coraggio e di capacità di essere politicamente scorretti. Il sistema italiano soffre da anni di alcuni difetti che potrebbero essere oggetto di correzione rapida “grazie” a questa crisi: la scarsa dimensione e la ancor più scarsa patrimonializzazione. Senza per questo voler fare “lotta di classe” credo, come ben detto pochi giorni fa dall’AD di Intesa San Paolo Carlo Messina, che i primi che dovrebbero aiutare le “loro” aziende siano i soci delle stesse, gli imprenditori che, normalmente, non fanno parte delle fasce deboli della nostra società. In un paese, ben più ricco del nostro come la Norvegia, qualsiasi azienda che non raggiunga un tasso minimo di capitalizzazione (l’8%) non ha accesso agli aiuti di stato. Perché dunque non incentivare un “co-finanziamento” dove per ogni euro (parliamo di cassa, non di patrimonializzazione fasulla) immesso come nuovo capitale dai soci, lo stato fornirà un multiplo a piacere in termini di aiuti? Solo per fare esempio virtuoso, leggo che Eataly ha appena deliberato un aumento di capitale per 25 milioni! Non dimentichiamo tra l’altro che con i provvedimenti che garantiscono l’accesso indifferenziato alla cassa integrazione, pressoché tutte le aziende già avranno uno sgravio importante sulla struttura dei propri costi. Sempre in questo solco sono i controlli – speriamo rapidi ed efficaci – che dovrebbero garantire che la liquidità messa a disposizione venga effettivamente usata per pagare i fornitori (ribadisco che con l’accesso alla Cassa Integrazione la parte stipendi dovrebbe essere già in gran parte soddisfatta). In questo modo infatti la circolazione della moneta si incrementa e quindi, a parità di stanziamento, i benefici del sussidio aumentano più che proporzionalmente. I diversi DCPM prevedono la destinazione dei finanziamenti ma quali sono i controlli e, soprattutto, le sanzioni per chi non si comporterà di conseguenza?
3) Favorire il reindirizzamento della liquidità già esistente e inutilizzata. Il rischio di un eccesso di liquidità, in questo momento, mi pare essere ampiamente sottovalutato. Se consideriamo l’insieme delle iniezioni di liquidità che sono state annunciate dai diversi governi, alla fine di questo percorso ci troveremo con un mercato inondato di liquidità che, purtroppo, non troverà riscontro in ricchezza reale. Mentre quando si parla di piano Marshall e di economia di guerra dobbiamo ricordare che i capitali allora forniti dagli Stati Uniti furono impiegati per costruire infrastrutture (case, strade, ferrovie, etc.), oggi la liquidità annunciata servirà principalmente a soddisfare consumi – gli acquisti delle classi meno abbienti – senza trovare riscontro nella creazione di beni durevoli. Tutto ciò, se immaginiamo che la storia sia di guida per il futuro, si tradurrà, al meglio, in una bolla inflazionaria. Nel peggiore dei casi invece in bolle speculative che rischieranno seriamente di portarci al ripetersi di situazioni che ci sono costate molto care nei decenni passati (2001 e 2008 solo per fare due esempi). L’alternativa potrebbe invece essere quella di favorire il reindirizzamento della liquidità già esistente e inutilizzata – secondo un recente studio i soli fondi di Private Equity europei disponevano a fine 2019 di 2.300 miliardi di € di capitale da investire – come detto “inducendo” gli imprenditori a investire nelle proprie aziende e, qualora non lo facciano, favorendo i capitali oggi non investiti alla patrimonializzazione delle aziende attraverso obbligo di aprire il capitale delle aziende ad altri investitori interessati , defiscalizzazioni, esenzioni (sento parlare di una nuova struttura tipo PIR), etc.
Certamente in questo sforzo temo non sarà di grande aiuto la proposta di una tassa patrimoniale, come ventilato da alcuni esponenti del PD. Questo tipo di intervento potrà (forse) essere discusso in futuro, ma oggi avrebbe come unico effetto quello di allontanare gli investitori dal nostro Paese e non invece quello di favorire un investimento (non un prelievo) al supporto della comunità.
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