Imprenditori
LA VITA È CIÒ CHE ACCADE MENTRE SIAMO IMPEGNATI COL JOBS ACT
Premetto che ritengo le battaglie sul lavoro sacrosante e ne ho assoluto rispetto.
Specie quelle condotte da chi è costretto in vergognose condizioni di sicurezza (quasi due morti sul lavoro al giorno secondo le statistiche, cifra che aumenta includendo “lavoratori” non ufficialmente riconosciuti come tali – per esempio, l’agricoltore over 60 schiacciato dal trattore).
Oppure le battaglie di chi è consumato dalla fatica fisica, di chi è umiliato e abusato, di chi è escluso e dimenticato.
Siamo in un’epoca complicata e sofferta poiché, vuoi per la crisi economica – “Niente soldi!”, “Rischio fallimento!” -, vuoi per il crollo del mercato del lavoro – “Non si assume!”, “Nessuno è indispensabile!” -, le tutele passano in secondo piano rispetto all’opportunità (o meno) di lavorare.
Tra gli oltre 22 milioni di occupati in Italia, forse tanti si ritengono fortunati e privilegiati perché un posto ce l’hanno (seppur, spesso, miseramente remunerato: oltre 10 milioni di italiani sono “poveri”, secondo l’Istat).
Il clima sembra essere tornato quello descritto dal primo Fantozzi: “Ma allora mi han sempre preso per il culo! …Loro, il padronato, le multinazionali. Per vent’anni m’han fatto credere che mi facevano lavorare solo perché erano buoni!”.
In un tale contesto, i “padroni” sono “datori di lavoro” (cit.) che sentenziano: “Ringraziami, almeno, che ti faccio lavorare!”.
Ma quest’epoca è complicata e sofferta anche perché se una considerazione su argomenti di rilievo assoluto non asseconda a sufficienza il flusso ufficiale e binario di opinioni contrapposte, e anzi se ne discosta, viene abitualmente “congelata” da repliche automatiche, del tipo “ricalibrante” – “Il problema è un altro” – o del tipo “indignante” – “Stiamo a qui a parlare, mentre il Paese cade a pezzi”.
Perciò lo so di mio che un tentativo, diciamo “divergente”, di riflettere su una materia scottante come il lavoro, di questi tempi, d’istinto susciti reazioni fulminee e fulminanti: “Non sappiamo neppure se avremo una pensione”, “Siam tutti precari”, “Il posto fisso è un miraggio”, “Avercelo, un lavoro!”.
E lo scrivo da persona che si occupa di “lavoro” da anni. Non come politico, sindacalista, imprenditore o dipendente. Ma da consulente e formatore (sulla crescita umana e professionale). Per di più freelance. Cioè precario.
Il “precariato”, però, me lo sono scelto anni fa. Perché allora, immaginando e progettando il mio personale percorso lavorativo, mi sono chiesto: “Se lavoro deve essere, se proprio non posso avere uno stipendio e basta, senza lavorare, allora che questo lavoro abbia un senso! E quel che devo imparare, almeno che mi prepari anche alla vita!”.
Dopodiché mi sono messo in cammino, con scarsa disponibilità finanziaria, nessuna “amicizia”, grande terrore dell’incertezza e svariate altre difficoltà (non è così per chiunque?).
Tuttavia, oggi, sono una specie di testimonianza in carne o ossa (insieme a molti altri, per fortuna) che il lavoro potrebbe (dovrebbe?) avere anche qualità, per così dire, “elevate”.
Che può essere svolto con passione e senso etico e ispirato da valori e principi.
Chissà, magari la pensano allo stesso modo anche quei numerosi lavoratori italiani che lascerebbero il proprio posto entro l’anno: sarebbero l’84%, secondo il Kelly Global Workforce Index 2014. Che statistica deprimente! Dove sono finiti fedeltà e senso di appartenenza, la crescita e i percorsi di carriera?
Domandiamo(ci) quanta soddisfazione generano il lavoro (ci piace? Siamo motivati? Ci sentiamo “realizzati”?), i contenuti che esso veicola (sono di sostanza? Importanti? Arricchenti?), le attività (ripetitive? Stancanti? Pericolose?), le relazioni umane (autentiche? Nutrienti? Solide?), la remunerazione (adeguata? Regolare? Progressiva?) eccetera.
Immagino che molti direbbero, frustrati, qualcosa del genere: “Non ci sto bene, ma mi tengo stretto questo lavoro, coi tempi che corrono!”.
L’urlo di protesta “Vogliamo più lavoro!” può creare confusione, soprattutto tra quei “capi” che ritengono di “farci un piacere” se ci fanno lavorare (purtroppo trovando conforto nei comportamenti di tanti che, nel chiedere “la raccomandazione”, implorano appunto il favore dal potente di turno).
Ma il lavoro è un diritto. Il lavoro è il centro della nostra società (la domanda basilare è: “Cosa fai nella vita?”). Nel lavoro definiamo la nostra identità (fino all’eccesso di riferirci alle persone per mezzo di metonimie: “Ha sposato un ingegnere”, “Il mio vicino di casa è un panettiere”, “Io sono un insegnante”).
Dunque, perché non dedicarci a nutrirlo di “vita”? Da anni una certa strategia organizzativa ha posto, specie nelle famose “mission” aziendali, “la persona al centro”.
Le grandi multinazionali della consulenza (e relativi imitatori) suggeriscono che i “team” e la “collaborazione” (aspetti che implicano relazioni di valore tra esseri umani) fanno la differenza.
Trattasi di politiche (aziendali) “degli annunci” (o delle promesse), solitamente disattese nella pratica quotidiana, nella quale gli uffici deputati a occuparsi di “vita” fin dai nomi suscitano quantomeno perplessità: dalle “risorse umane”, che ci equiparano a quelle “tecniche” o “finanziarie”, all’impersonale “ufficio del personale”.
Perché non considerare chi lavora semplicemente (rivoluzionariamente?) come “persone”?
Sia chiaro, provo un grande rispetto per il vissuto di sofferenza di chi il lavoro, appunto, non ce l’ha o teme di perderlo.
Ma comprendo anche che, nella stragrande maggioranza dei casi, la paura riguarda la perdita del reddito, non del lavoro.
Ecco, se assumessimo che il punto è questo: non il tipo di contratto, non il lavoro, ma il reddito?
Fantastichiamo per un attimo di vivere in una società magica e giusta (!), in cui solo per il fatto di esistere ognuno di noi fin dalla nascita dispone di, poniamo, 2mila euro ogni mese.
È una riflessione surreale che invito a fare chi partecipa ai miei workshop sul “lavoro che vorrei” (“che vorrò”).
Ma, se così fosse, non saremmo tutti più impegnati a creare le condizioni per un lavoro che ci gratifichi? Magari, per fare un esempio, ci sforzeremmo di più affinché le nostre azioni risultassero, davvero, utili per qualcuno?
Forse la quantità (di denaro, di contratti firmati, di conoscenze, di collegamenti su Linkedin, di righe di curriculum) sarebbe meno importante della qualità (delle relazioni, delle emozioni, delle conseguenze generate, della vita)?
Dice l’articolo 4 della Costituzione italiana: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
Sono in tanti, in Italia, ad avere scelto di adempiere a un proprio dovere costituzionale: contribuire al progresso, per sé e per gli altri.
Mi riferisco a chi ha investito, spinto da ideali ambientalisti, con l’obiettivo di creare economie nel campo della “sostenibilità”, quando pochi ci credevano (i tempi sono cambiati: da qui al 2020, si possono creare in Europa fino a 20 milioni di posti di lavoro, secondo l’UE).
C’è chi, anche per motivi etici, l’ha fatto in agricoltura e nella produzione alimentare (dal “bio” al “km 0”, dai “prodotti tipici” all’ “equo e solidale”).
Poi i giovani (e meno giovani) che, in anni bui per le politiche sociali, si impegnano per generare servizi sostitutivi del Welfare pubblico (in via di estinzione), con progetti imprenditoriali (aziende e cooperative) o professionali (freelance) per l’educazione, per la cura e la salute, per il benessere, per il recupero di luoghi e paesaggi, per l’arte e la cultura.
Una comunità, sensibile e creativa, di cui si registrano con orgoglio segni di forte vitalità un po’ lungo tutto lo Stivale.
Incontrando queste persone, che hanno rivolto il proprio operato all’attenzione per altre persone, si respira un senso di coesione, un’unità di intenti, una convinzione di non essere soli. E soprattutto una visione del futuro e una sensibilità profonda per il senso della vita.
Quando penso al Jobs Act e alle battaglie sul lavoro dipendente non posso fare a meno di pensare anche che, contemporaneamente, ci sono migliaia di individui che hanno deciso – dando massima rilevanza alla vita – di trasformare una passione in lavoro o hanno reso il proprio lavoro appassionante.
Migliaia di professionisti che si sono “messi in proprio”, tuffandosi nell’oceano pericolosissimo della precarietà, con l’obiettivo dichiarato di costruire un mondo migliore.
Questo è un tessuto sociale realmente esistente, che vive. E che rianima il nostro Paese.
In una “società magica e giusta”, il Jobs Act non sarebbe un vero e concreto (!) rinforzo di queste energie di vita?
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