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La moda che conta cambia pelle: Da Armani a Cucinelli, spazio alla sostenibilità
Sono sempre di più i brand importanti del comparto fashio che sposano la sostenibilità con investimenti nelle farm, per garantire la qualità del prodotto nel rispetto dell’ambiente, dando spazio all’agricoltura rigenerativa con progetti ideati ad hoc. Ma, l’inquinamento non accenna a diminuire a causa dell’ iperconsumismo praticato in modo sconsiderato
Il patinato mondo della moda che conta, fatto di lusso sfrenato, sembra sempre di più orientato a cambiare pelle, tenendo in debita considerazione oltre agli interessi commerciali di ciascuna azienda, anche la sostenibilità ambientale . Tutto questo, partendo dal reperimento o produzione di materie prime, in grado di essere tracciate nel rispetto di qualità e diminuzione dell’inquinamento.Per mettere in pratica un processo di ammodernamento, rivoluzionario rispetto ai tempi passati, occorre, certamente, rivalutare attività superate ma che si rivelano ancora alquanto importanti e proficue per il conseguimento degli obiettivi prefissati.
Basti pensare alla bachicoltura, ovvero l’attività di produzione della seta, attualmente detenuta dalla Cina, quasi in toto, e resa possibile attraverso l’ideazione di progetti ad hoc per permettere alla filiera del made in Italy di tornare a dire la propria a livello internazionale. Nel nostro Paese, in particolare, la Giorgio Armani S.P.A, ha creato il progetto sul cotone, “Apulia regenerative cotton project“, in collaborazione con la Fashion task force di re Carlo III, al cui vertice siede Federico Marchetti, con il supporto di PwC Italia, per incentivare il modo di coltivare il cotone sostenibile nella terra di Puglia.
Ancora, lo stesso Brunello Cucinelli con il suo brand leader mondiale nella produzione di filati, promuove un altro progetto assai autorevole nell’ambito della task force, ovvero, l’ “Himalayan regenerative fashion living lab”, al fine di costruire catene di valore sulle comunità dell’Himalaya, custodi di abilità artigianali e tessili di inestimabile valore, che costituirebbero opportunità di rilancio all’economia locale poco sviluppata, ma ricca di materie prime preziose, quali il cashmere, il cotone e la seta.
L’ultimo rapporto di Wrap (ONG che si batte per il clima) rivela che l’alto tasso di inquinamento nel settore moda è dato dall’ iperconsumismo praticato senza criterio
Stando a quanto si apprende dalla ricerca condotta da Wrap, ONG che si batte per il clima, i confortanti risultati raggiunti dalle aziende firmatarie del piano d’azione britannico Textiles 2030, tra i quali colossi della moda veloce come H&M e Primark, risultano vani, a causa di un iperconsumismo praticato in modo sconsiderato che non permette al ritmo produttivo delle aziende, soste di alcun tipo. Nel rapporto di Wrap, infatti, tra il 2019 e il 2022, i dati sulle emissioni di anidride carbonica e l’impiego di acqua nel tessile delle 130 aziende firmatarie del piano d’azione in oggetto, sarebbero diminuiti del 12% e 4% per tonnellata, ma, il volume complessivo di prodotti tessili realizzati e venduti è aumentato del 13%. Dunque, la moda risulta essere tra i settori più inquinanti al mondo, con il 10% delle emissioni su scala globale. Nello specifico, l’Inghilterra è tra i paesi europei che acquista di più pro capite (in media 28 capi tessili ogni anno).
Sebbene la la Commissione Europea abbia dimostrato l’interesse ad arginare gli effetti collaterali legati al fast fashion, attraverso l’introduzione di nuovi pacchetti normativi da rispettare, per le industrie, ciò che appare come alternativa davvero utile e capace di incidere in modo significativo in favore della sostenibilità ambientale, è un rallentamento del ciclo di produzione aziendale, ed una contestuale e radicale diminuzione nei flussi di acquisto da parte dei consumatori, quantomeno, limitandosi nel comprare articoli del tutto superflui.
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