Imprenditori

“Italiani i più ignoranti d’Europa perché chi comanda non tutela il merito”

3 Ottobre 2017

L’ultimo a lanciare l’allarme in ordine di tempo è l’Espresso: gli Italiani sono sempre più ignoranti. Raffaele Simone nella sua riflessione sul settimanale si sofferma su un dato: abbiamo il ceto politico più impreparato di sempre, tanto che i parlamentari laureati hanno toccato il record negativo del 68% contro il 91% del primo Parlamento repubblicano.

Ma sono tante le istituzioni, le ricerche e le testate autorevoli che denunciano il fenomeno. Due dati tra tutti: con il nostro 26,2%, secondo l’Eurostat, siamo penultimi in Europa per percentuale di laureati tra i 30 e i 34 anni (ultima la Romania con il 25, 6%), mentre lo Human development report del 2009 certifica che il 47% dei nostri compatrioti è analfabeta funzionale, cioè sa leggere e scrivere ma non è in grado di comprendere un testo complesso come questo articolo.

I numeri non sbagliano mai? O forse sono letti male? Dobbiamo davvero preoccuparci? Lo abbiamo chiesto al professor Enzo Risso, direttore scientifico di Swg, istituto di sondaggi.

Siamo davvero sempre più ignoranti?

«Se guardiamo al lungo periodo il trend è segnato dall’aumento delle persone colte nel nostro Paese, mentre se ci confrontiamo con gli altri Stati europei l’Italia è messa male».

Un esempio?

«Nel 1951 gli Italiani erano 47,5 milioni e di questi gli analfabeti erano 5,4 milioni: più di uno su dieci; nel 2011 la popolazione è di 60 milioni e coloro che non sanno leggere e scrivere sono 596mila: meno di uno su cento. Sempre nel 1951 i laureati sono 422mila, mentre nel 2011 sono 6milioni 600mila. Poi certo, il totale dei nostri laureati è il 34% contro il 74% dell’Australia…».

Perché la diffusione di istruzione e cultura in Italia aumenta così lentamente?

«Voglio partire da alcune ricerche che abbiamo fatto per capire secondo gli italiani cosa sia la cultura e cosa significhi essere colti: per il 73% vuol dire migliorarsi come persona, per il 66% avere capacità critica, per 64% conoscere le lingue, per 53% raggiungere un buon livello di istruzione. Su quest’ultimo dato per esempio possiamo osservare due cose: tra i millennial, ossia i nati tra i primi anni ’80 e i primi 2000, la percentuale scende al 49%, mentre tra le persone che sono nei ceti bassi cala al 47%».

Come si spiega?

«Abbiamo vissuto più di 20 anni di apologia liberista in cui si diceva “Sii furbo perché chi lo è fa i soldi”: non è certo lo slogan di una società meritocratica».

Sta parlando di quel periodo che va dagli anni ’80…

«…fino al 2005 quando in Italia è arrivata la crisi un po’ prima di quella del 2008. Questo dogma di fare soldi, di avere la propria fabbrichetta con il proprietario che sa tutto e forma le persone da sé ha immesso una scoria nella società italiana: quella che il sapere è un elemento secondario. Nel mentre nel mondo si è sempre più investito su innovazione e ricerca».

Ma la responsabilità è della classe dirigente che non investe in istruzione o degli Italiani che non credono nella cultura?

«C’è un problema delle classi dirigenti italiane, ma non è il fatto che in Parlamento ci sono pochi laureati: quello è un aspetto positivo, perché Camera e Senato devono rappresentare le varie anime del Paese e non essere un’oligarchia di sapienti».

Quindi il problema qual è?

«È che la classe dirigente italiana oggi però non è in grado di investire sul sapere e sulle conoscenze perché per anni le ha snobbate. Oggi bisogna rimettere al centro il sapere e le conoscenze e soprattutto il tema della meritocrazia».

Viene in mente il caso esploso pochi giorni fa sulle raccomandazioni all’università.

«Ecco, questi episodi fanno malissimo al Paese, alla cultura e al sapere. Le famiglie non sono motivate a far studiare i figli se un laureato trova lavoro solo in un call center a 600 euro al mese oppure gratis in uno studio professionale: che senso ha fare il percorso universitario se si finisce così?».

La colpa dunque non è degli Italiani?

«Gli Italiani sono colpevoli di familismo. Prendiamo ad esempio l’allenatore che per lavorare con una squadra pretende che la società assuma tutta la sua famiglia con gli incarichi più disparati. Ma, prima di prendercela con gli Italiani, accusiamo gli imprenditori che preferiscono i signorsì ai migliori, il neodiplomato al laureato, perché vogliono formarlo loro e hanno paura se il neo assunto ne sa più di loro».

Anche gli imprenditori dunque giocano un ruolo importante nel screditare l’istruzione.

«Ricordiamoci che in Italia le grandi imprese, dove la meritocrazia è più diffusa, sono solo 300mila, mentre le Pmi, dove lo è molto meno, sono 4 milioni. La classe dirigente ha paura di investire nel sapere perché viviamo in un mondo di corporazioni che si vogliono tutelare, invece di spingere in avanti il mondo».

Qual è la ricetta per uscire da questa spirale negativa?

«Abbiamo bisogno di una forte iniezione di meritocrazia. Che vuol dire mettere persone giuste al posto giusto ovunque, anche nel calcio».

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