Imprenditori
Ipocrita fin dalla nascita
Nella diffusione dell’indagine Uecoop su dati dell’Ispettorato del lavoro relativa alle persone che lasciano il lavoro per prendersi cura di bimbi e bimbe in tenera età si specchia l’ipocrisia di una parte del dibattito sul crack demografico del nostro Paese e sulle sue conseguenze.
Cosa ci dice questa indagine?
Giornali, televisioni e siti di informazione riportano che nel corso del 2018, quasi 50mila papà e mamme hanno rassegnato le dimissioni dal lavoro per poter accudire bimbi e bimbe in tenera età, a causa dell’assenza di familiari che possano prendersene cura (27%), per i costi eccessivi fra asilo nido e baby sitter (7%) oppure per carenza di posti disponibili nelle strutture preposte (2%).
Altro non si riesce a dire su questa ricerca, perché in rete non c’è traccia del rapporto completo da cui sono tratti i dati e sulla metodologia utilizzata per calcolarli: nella sezione “Primo Piano. News” del sito di Uecoop, l’ultima notizia è datata 13 novembre 2019.
Ma assumendo che i dati si basino su metodologia rigorosa e siano corretti, come interpretarli?
1. La famiglia non conta (e può solo contare su se stessa)
Una società che non agevola chi la abita e la vive nel realizzarsi anche con la nascita di una nuova creatura (o con l’adozione di una abbandonata o priva di tutele) è una società che nella sostanza non si prende cura delle famiglie (di qualsiasi tipo, s’intende).
È come dire che chi occupa le posizioni che incidono sulle traiettorie di sviluppo della comunità sta guidando con gli occhi puntati sullo specchietto retrovisore.
Se per invertire il declino demografico non è prioritario supportare chi vuole procreare, almeno si favorisca l’immigrazione regolare.
L’ISTAT dice che il tasso di fecondità delle donne straniere in Italia nel 2018 è stato di 1,94, a fronte dell’1,21 delle donne italiane. La stessa fonte ci dice che nel 2008, i tassi erano rispettivamente 2,85 e 1,34.
L’impressione è che, al di là del contributo dal dibattito, questo trend derivi non da una strategia deliberata ma da una «strategia “a mia insaputa”» ovvero da una «strategia inconsapevole» (e questo non migliora la situazione, anzi).
Ne vedremo le conseguenze quando la generazione degli attuali 50enni entrerà nella terza e quarta età. Ne pagheranno il conto le nostre imprese
2. La donna può attendere (e accontentarsi)
Una società in cui sono ancora le giovani donne a doversi sacrificare sul piano professionale per la famiglia è una società che nella sostanza tratta il genere femminile in modo «residuale».
Da una parte, ci sono quelle che lasciano il lavoro per esigenze di conciliazione. Dall’altro, ci sono quelle che «subiscono» il Gender Pay Gap (vedi ricerca JobPricing 2019 e i dati Eurostat).
Vero è che il differenziale retributivo tra donne e uomini è molto diverso nel settore pubblico (intorno al 5% a favore dei primi) rispetto a quello privato (intorno al 20%), ma è altrettanto vero che per avere piena contezza della «residualità» delle donne al lavoro bisogna ampliare l’analisi fino a includere la minore durata del ciclo di vita professionale delle donne e la minori prospettive di carriera a loro offerte (il cosiddetto soffitto di vetro). Così facendo, dice il rapporto Jobpricing, si vede che l’Italia è al 70° posto su 149 Paesi nel mondo per la capacità di colmare le differenze di genere, e al 17° posto su 20 Paesi dell’Europa Occidentale.
L’impressione è di essere di fronte a una profezia che si autorealizza, che per Robert. K. Merton, che la concepì alla metà del secolo scorso è «una definizione falsa della situazione che determina un nuovo comportamento che rende vera quella che originariamente era una concezione falsa».
È come dire che siamo tutti talmente convinti che le donne che diventano mamme tendono a impegnarsi di meno sul lavoro per le evidenti difficoltà nel conciliare esigenze familiari e professionali, tanto da far poco o nulla per favorire la conciliazione o da preferire i maschi in certe posizioni di lavoro per non rischiare le incognite della “interruzione per maternità”, cosicchè le neo mamme sono per davvero costrette a ridurre l’impegno al lavoro o a lasciare il lavoro per dedicarsi alla nuova creatura.
Non è propriamente edificante e serve uno sforzo collettivo per correggere il tiro.
3. Molte (non tutte) imprese latitano (e sono lasciate sole)
Anche gli stili di direzione adottati dalle imprese possono aiutare a gestire la conciliazione tra il lavoro e l’esperienza genitoriale dei primi anni di vita.
Non c’è nulla che impedisca di organizzare gli orari di lavoro in modo flessibile, tenendo conto delle temporanee esigenze di conciliazione, perché così facendo si impatta positivamente sulla motivazione e sull’adozione di comportamenti di cittadinanza organizzativa al rientro in attività. Vero è che queste azioni sono praticabili in relazioni professionali orientate alla stabilità e al medio-lungo termine, che mal si conciliano con situazioni di lavoro intermittente e con aziende diverse.
Non c’è nulla che impedisca di introdurre il job sharing prima del periodo di maternità, pratiche di smart working nei primi periodi post maternità, e ancora soluzioni di job sharing per supportare il definitivo pieno reinserimento al lavoro, piuttosto che impostare piani di welfare differenziati in grado di soddisfare anche le esigenze delle famiglie che crescono. Vero è che ci sono imprese che hanno oggettive difficoltà nel gestire la maternità in questo modo per oggettivi gap di competenze interne. Ma è anche vero che queste modalità a volte hanno costi che è improprio caricare sulle imprese.
(anche) Su questa partita vedremo la progettualità delle Parti Sociali negli anni a venire.
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