Imprenditori

«Cinquantamila euro in nero farebbero comodino»?

19 Novembre 2014

Un piccolo imprenditore, con cui qualche tempo fa mi trovavo a pranzo per motivi di lavoro, commentando il quotidiano caso di corruzione in Italia, mi ha regalato questa ammissione: «Certo che oggi come oggi un cinquantamila euro in nero farebbe comodino». La citazione è testuale, l’ho memorizzata sgrammaticata così com’è stata proferita, tanto mi ha colpito.

Dunque, per capire bene: la convenienza farebbe l’imprenditore corrotto. La tangente, offerta o ricevuta, genererebbe benefici quando la lunga notte invernale è ancora assai fonda. Siamo in crisi, per cui. 

Mica sempre, ovvio. Ma, se si presenta l’occasione, che male può fare un piccolo favore? A chi possono nuocere un aiutino, una spintarella, un po’ d’olio negli ingranaggi per sveltire i meccanismi, uno scambio di cortesie, una spifferata, un leggero vantaggio, un condono, una proroga o meglio una deroga, uno sconto di pena, un’amnistia, un’indulgenza plenaria?

Mica sempre. Però spesso. Protagonisti talvolta sono anche attori insospettabili, all’apparenza integerrimi.

C’è quel professionista dei servizi pubblici chiamato dall’ente locale per scrivere un capitolato di gara che passa sottobanco informazioni assai cruciali all’impresa che poi se la aggiudica, quella gara, e il suddetto professionista, dopo breve, si ripropone come consulente dell’impresa aggiudicatrice.

C’è il grande esperto di ecologia, ormai di fama internazionale, che vanta un reddito annuale dell’ordine delle centinaia di migliaia di euro, il quale, all’occorrenza, non disdegna di farsi invitare dall’organizzazione pubblica a pernottare con famiglia in località turistica durante il weekend. Ospite dei contribuenti, of course. Certuni direbbero che il reddito notevole uno se lo fa a suon di avarizie assortite, non di certo spendendolo quel reddito: ma questo è un altro argomento.

C’è quel responsabile di associazione non profit con radicamento world wide che si riserva, diciamo, la gentile (auto)concessione di una prima classe qui, di un sontuoso pasto lì, il tutto profumatamente rendicontato a bilancio, sotto l’inattaccabile voce “varie” dell’elenco spese. Niente di male, non fosse altro che quel bilancio è costruito sulla base di donazioni per scopi umanitari.

C’è quel presidente di cooperativa sociale diffusamente attiva sul territorio che, a scanso di equivoci, si tessera annualmente per il partito che su quel territorio governa, alleanze dopo alleanze, dalla notte dei tempi.  Turandosi il naso, beninteso, ma almeno “partecipi ai giri giusti”, trovando posto a sedere nei salotti dove le informazioni circolano (e con opportuno anticipo rispetto ai tempi “pubblici”).

C’è quello studioso modello che per adeguarsi ai costumi universitari ricicla con creativa sapienza (o con astuta forzatura) il tal titolo, il tal articolo, la tal ricerca, e partecipa con disincanto alla farsa del tal concorso con tanto di borsa di studio, come a dire, creato ad hoc. Il fine è senz’altro nobile o forse sarebbe meglio dire “aristocratico”, poiché consente di rientrare nella elite dei meritevoli prescelti dell’accademia.

C’è quel politico di solito onesto che, “travolto dagli eventi”, è felice di accettare un bel regalo di Natale, il biglietto per il concerto, la partitissima, il grande evento, lo spettacolo dell’anno. Via via che accetta, il cadeau assume proporzioni sempre più convenienti: la cena al ristorante stellato, la cassa di vino pregiato, l’abbonamento per la stagione lirica, l’orologio d’oro, il breve soggiorno nel resort di grido, la vacanza in barca a vela, la casa a propria insaputa.

C’è quel giovane aspirante imprenditore, bravo con il computer e inventore di quel software che semplificherà la vita di tutti noi una volta distribuito sul mercato, che però sul mercato non ci va, dal momento che i suoi concorrenti son tutti amici della cricca (o della casta, a seconda). Non ci va finché non sarà disposto a pagare la tassa occulta della corruzione. E lo farà perché “bisogna farsi furbi, tocca adeguarsi, se no ti spazzano via”.

Sono alcuni esempi delle numerose messinscene nella “grande pupazzata” (feat. Pirandello) dell’immoralità all’italiana. L’anticamera della corruzione, terreno fertilissimo per il sistema delle mazzette acca ventiquattro.
Peraltro, come ricorda il professor Alberto Vannucci, tra i massimi esperti del fenomeno, in Italia abbiamo circa 4-5 milioni di episodi di corruzione ogni anno (il 12% della popolazione ha proposto o si è sentito proporre una tangente). Come a dire: questa montagna di casi si genera a partire da un’attitudine diffusa, quale è, per l’appunto, la ricerca ossessiva della convenienza. In sociologia si definisce familismo amorale (Edward Banfield) quell’agire interessato a massimizzare i vantaggi per sé e la propria cerchia ristretta, a scapito del bene collettivo.

A voler fare i pignoli, infatti, va specificato che i casi di cui su non sono tecnicamente faccende di corruzione, così come l’ordinamento giuridico la intende, ma fan parte come detto di una cultura diffusa nell’ordinario professionale. Dove l’uomo è lupo per l’uomo, dove il pesce grande mangia il pesce piccolo, dove la tua morte rappresenta la mia vita, dove il fine giustifica i mezzi, dove non solo io devo vincere ma bisogna che tutti gli altri perdano. Insomma, in quel mondo, il mondo del lavoro, dove è bene “farsi furbi”.

Nel quale i furbi sfondano, sbancano, spaccano. Non i meritevoli, non i colti, non i competenti, non i giusti: ma gli scaltri e i paraculo. Gli Schettino, i “furbetti del quartierino”, il calciatore che denuncia la combine a tempo debito (cioè quando ormai, penalmente, non serve più a nulla, non sia mai che gli si ritorca contro, che il sistema, di cui fa parte, venga smontato). Tutti individui resi icone mitiche dal tele-sensazionalismo, fino a ritrovarceli in cattedra (o al governo).

Il punto è che ognuno di noi nel quotidiano è complice di costoro. Siamo o non siamo noi che, almeno una volta nella vita, abbiamo rubato gli asciugamani negli alberghi o i posacenere nei ristoranti? Siamo o non siamo noi che ci siamo permessi un furtarello a fin di bene in libreria? Siamo o non siamo noi che abbiamo comprato, per pagarla poco, la bicicletta al “mercato nero”, finanziando di fatto quell’economia che sfama chi prima o dopo ce la ruberà?

E a proposito di “nero” e di risparmio: siamo o non siamo noi ad aver suggerito a fabbro, idraulico, piastrellista, muratore, falegname, elettricista, geometra, avvocato, architetto, medico o ingegnere, di far pure senza fattura per fare un po’ di meno? Siamo noi, no, ad aver contribuito a rovinare il territorio comunale, sporcare le strade, vandalizzare l’arredo urbano, appropriarci di beni collettivi (“sì, ma di poco valore”)?

Era sempre una nostra idea quella di fregare l’assicurazione (“che tanto ci frega”) con finti incidenti o finte conseguenze. Noi abbiamo affittato abusivamente (e in nero), intestato l’auto alla nonna, chiesto raccomandazioni, evaso il fisco (“be’, ma parliamo di piccole cifre, gli altri in confronto…”). Abbiamo mentito e manipolato; ci siamo fatti corrompere da comodità e convenienze. Pertanto, piaccia o meno, siamo complici e colpevoli.

Certo non ci garba sapere che ce n’è anche per noi, perché di solito ci sentiamo del tutto estranei al malaffare. I cattivi sono gli altri. Eppure è complice quella segretaria amministrativa di istituzione pubblica che, eseguendo gli ordini e pagando le fatture dei tecnici manutentori, copre il reato del suo diabolico capo, il quale ha la prontezza di farsi sistemare dai medesimi incaricati dall’ente, visto che c’erano, anche la veranda di casa (da condonare alla prima occasione).
Che cosa avrebbe potuto fare, quella povera segretaria? Senza dubbio avrebbe perso il lavoro se si fosse rifiutata o se, in un raptus di pazzia, avesse addirittura denunciato.

Già, quei soldi “fanno comodino”; il lavoro me lo tengo stretto, piuttosto faccio finta di non vedere o non sapere, di certo mi faccio i fatti miei. Ma quante porcate abbiamo visto in ufficio o in fabbrica? Quante ingiustizie e prevaricazioni? Quanta illegalità siamo disposti a tollerare intorno a noi prima di accorgerci che la questione ci riguarda e soprattutto ha a che fare col nostro futuro?

D’altra parte, anche noi come la segretaria, che cosa potremmo fare? Be’, potremmo, intanto, rifiutare nonostante la tentazione, come fa Alberto Sordi in “Una vita difficile”. Il grande schermo da sempre rappresenta la corruzione e i suoi loschi protagonisti, mostrandoceli in effetti per quello che sono: spesso uguali a noi, persone comuni. Per quanto l’abitudine della bustarella sembri appartenere alla classe dei ricchi o degli arricchiti, in verità coinvolge tutti.

Dunque la risposta è che dovremmo opporci, denunciare, farci avanti, difendere le regole di convivenza sociale, custodire il principale bene comune che abbiamo: la libertà. Allora occorre accettare di batterci, di entrare in conflitto con i corrotti. Far saltare i rapporti di fiducia con quel “sistema”, che vive grazie all’assoggettamento omertoso e al silenzio di chi si gira dall’altra parte (“Meglio farci i cazzi nostri!”, per usare un’elegante opinione comune).

Da qualche anno ho scelto di affiancare al mio lavoro l’impegno civico contro la corruzione. Tutto è cominciato dal mio amico Raphael Rossi, manager pubblico cui è stata proposta una tangente: lui ha rifiutato e denunciato per poi farsi carico del percorso che ne è conseguito, tra forze dell’ordine, intercettazioni, magistratura, tribunale.
Col mio amico e socio Stefano Di Polito lo abbiamo aiutato e sostenuto: ne è nato un movimento, i “Signori Rossi – Corretti non corrotti”, fondato sulla convinzione che gli onesti siano la maggioranza, ed è indispensabile che questa si manifesti, visto che, al contrario, i corrotti tramano di nascosto.

Per agire contro quel sistema è necessario creare consenso intorno all’etica e alla correttezza: abbiamo trasformato un isolato “signor Rossi” in una moltitudine di “signori Rossi”. Lo raccontiamo nel nostro libro “C’è chi dice no” (Chiarelettere, 2013), nel quale tra l’altro facciamo proposte concrete per amministrare eticamente la cosa pubblica.
Proposte che derivano dai risultati raggiunti nella nostra esperienza diretta, perciò fattibili davvero, al di là delle chiacchiere.

Una delle idee riguardava la formazione. Contando sulla sponda istituzionale della professoressa Gabriella Racca (Facoltà di Economia), ci siamo riusciti in tempi recenti anche a Torino. Dipendenti e funzionari pubblici (soprattutto chi si occupa di appalti, gare, acquisti) hanno seguito un percorso per rinforzare competenze di diritto pubblico e per acquisire capacità di sensibilizzazione e comunicazione.

Non è sufficiente, ci siamo detti, essere dei bravi tecnici: urge cambiare la cultura, promuovendo l’etica al lavoro, nei nostri uffici (pubblici e privati), nel dialogo con fornitori, clienti, collaboratori, destinatari, utenti, cittadini in generale.
Le aziende, pubbliche e private, scrivono “codici etici”, “carte dei valori”, “bilanci sociali” e via promettendo. Ci sono le “white list”, l’elenco di aziende “buone”, che possono quindi concorrere alle gare pubbliche, partecipare ai bandi della pubblica amministrazione.

Ma, come dice il parlamentare Davide Mattiello, attivista della lotta anti-mafia: “La nostra società si basa sulla presunzione di innocenza, mentre con questi sistemi diciamo che tutti sono disonesti, eccetto quelli iscritti alle liste, salvo scoprire poi che vi compaiono anche le aziende segnalate dall’antimafia…”.

Appunto: purtroppo non basta, perché alle intenzioni e agli annunci, guarda un po’, è necessario far seguire i fatti. Bisogna che, di fronte alla corruzione, e ancora prima davanti a pratiche varie ed eventuali, come truffe, nepotismi, clientelismi, conflitti d’interessi, tranelli, astuzie, mezzucci, scorciatoie, ammiccamenti, ci si fermi, ci si autoproclami arbitro e si fischi un fallo, come nello sport, anche saltando i vertici, rivolgendosi direttamente all’autorità.  Si chiama “whistleblowing”, la soffiata (nel fischietto) anonima, che può mettere al tappeto l’illegalità diffusa nelle organizzazioni di lavoro.

La scorsa settimana, in conclusione del percorso formativo, abbiamo organizzato a Torino un convegno sul tema alla Facoltà di Economia. Abbiamo raccolto contributi interessantissimi di esperti e testimoni di varie realtà: politica, istituzioni, società civile, università, media, cittadinanza. A tutti abbiamo rivolto la stessa domanda: che ruolo possiamo ricoprire per contrastare la corruzione? Ognuno ha la propria parte. Come il colibrì della favoletta spesso citata nel mondo del volontariato, dove può fare la differenza anche un piccolo gesto (“C’era un incendio nella foresta e mentre tutti gli animali fuggivano un colibrì volava in senso contrario con una goccia d’acqua nel becco. “Cosa credi di fare?”, gli chiese il leone. “Vado a spegnere l’incendio!”, rispose il piccolo volatile. “Con una goccia d’acqua?”, disse il leone. E il colibrì, proseguendo il volo: “Io faccio la mia parte!”).

Mi sono dilungato assai, me ne scuso. Volevo riflettere su futuro, lavoro, organizzazioni e persone. E ho finito col parlare di corrotti, disonesti e truffatori. Il nocciolo è questo, in effetti: la corruzione ruba il futuro, condiziona la corretta valutazione del merito, non permette la competizione libera. Lo sa bene Marco Gay, presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria, che non appena eletto ha subito dichiarato: “Fuori da Confindustria chi corrompe e si fa corrompere”.

“La corruzione distorce il mercato ed erode la qualità della vita”, si legge nella Convenzione della Nazioni Unite contro la corruzione. Tuttavia c’è chi la accetta (“Tanto funziona così, inutile cercare di combattere!”) e sceglie di far parte del meccanismo: destinando una percentuale alle tangenti (tra l’1 e il 3%, secondo le stime dei ricercatori) tutti gli ingranaggi si muovono a dovere. Le pratiche accelerano il loro iter, i tempi si accorciano, i vincoli si rimuovono, le procedure si bypassano.

Sembrerebbe un male necessario per far “girare l’economia”. Non è così, ancora una volta. Un’indagine di Transparency Internetional del 2012 dimostra come nei paesi in cui la crisi ha colpito di più la corruzione è maggiore. Già, con la crisi aumenta la corruzione; ma, purtroppo per noi, con la corruzione aumenta, e fortemente, anche la crisi.

Un’azienda americana, la Ch2m Hill, che lavora spesso con enti pubblici e governi, ha rigorosi codici di condotta interni contro la corruzione e una formazione continua che educa i dipendenti a chiedersi sempre, in azienda, quali siano i risvolti etici delle proprie azioni. Poiché sanno bene che la corruzione comincia molto prima della mazzetta: le pratiche scorretto prendono vita nelle situazioni ordinarie, negli incontri informali e conviviali (come l’invito al barbecue, molto diffuso negli Stati Uniti), nelle conoscenze interpersonali e negli affetti.

Un paio di esempi: se conosco personalmente un fornitore e sono giudice di una gara, devo comunicarlo e passare ad altri il compito di giudicare, altrimenti potrei essere condizionato. Oppure, se sono giudice e ricevo regali natalizi o per altro motivo (come il test di un prodotto), non devo accettare se l’oggetto ha un valore superiore a qualche decina di euro… Per l’Italia sembra roba da fantascienza!

Ma ce la possiamo fare anche noi. Mi conforta pensare ai dipendenti pubblici che hanno preso parte al corso di formazione citato sopra, i quali hanno collaborato su nostri stimoli per ideare un piano creativo anti-corruzione, basato su proposte di azioni quotidiane concrete e di semplice attuazione. Sono rivolte ai colleghi, ai cittadini, alle scuole, alle imprese.

L’eredità dell’esperienza formativa è l’applicazione di queste azioni etiche da parte di ognuno dei partecipanti al lavoro, con i colleghi, e altrove, con chiunque. In una sensibilizzazione continua che si propaghi per sei gradi di separazione fino a raggiungere tutti, capi che (cor)rompono compresi!

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