Imprenditori
FAMILY BUSINESS – Essere imprenditore oltre l’autoreferenzialità
Ottobre 2000, Autostrada A5 Basilea-Hattenbach all’altezza di Offenburg (Germania). Salvatore non si capacitava del fatto che in Germania ci fosse una città di dimensioni tali da avere tante uscite – almeno venti ne aveva contate – quante se ne potevano avere viaggiando a 150 Km orari in mezzora di autostrada. Mentre il minivan procedeva a velocità sostenuta ed i compagni di viaggio chiacchieravano animatamente per l’eccitazione della prossima destinazione, Salvatore rimpianse di non aver continuato a studiare, tanto da non avere mai sentito il nome di una città così grande. Conosceva Londra, Parigi New York, Mosca (che aveva anche visitato personalmente), ma Ausfahrt proprio non l’aveva mai sentita nominare. Suo padre era emigrato al Nord dalla Puglia negli anni 1950 e aveva trovato lavoro in una della tante fabbriche venete del boom economico. Lui aveva seguito il suo esempio: poca istruzione e tanto lavoro, forse meno per necessità rispetto a suo padre e più per la fretta di rendersi indipendente. Lavorava da quindici anni come operaio addetto alle isole di saldatura in uno degli stabilimenti di un’impresa familiare di medie dimensioni attiva nel settore del “bianco”[1]. Respinto il dubbio di non avere fatto bene ad accettare gli inviti dei genitori a proseguire gli studi – abituato come era a non recriminare e a non guardare mai indietro – Salvatore raccolse finalmente il coraggio a due mani e sputò fuori la domanda che la sua innata curiosità non poteva più zittire: “Minchia Ingegné, ma quanto è grande questa città Ausfahrt?”. Nell’abitacolo calò il silenzio perché nessuno – assorbito come era nella conversazione – aveva notato i cartelli, e men che meno aveva risposte. Tranne l’”Ingegné” che guidava il pullmino e che spiegò che in Germania gli svincoli di uscita autostradali non riportano, come in Italia, il nome della località – che è invece indicata qualche centinaio di metri prima su cartelli a portale – ma semplicemente la scritta “Uscita”. Ausfahrt in tedesco!
L’Ingegnere era soddisfatto di avere fatto breccia in pochi mesi nella cultura e nelle persone dello stabilimento. Non ne aveva peraltro mai dubitato, fin da quando aveva convinto e condiviso con il titolare e Presidente che l’innovazione – culturale, tecnica o organizzativa che fosse – si potesse produrre anche dal basso. Aveva convinto tutti a suo modo, adattando per mesi la presenza, il linguaggio e financo l’abbigliamento ai diversi interlocutori, dal Consiglio di Amministrazione al Direttore di stabilimento, dagli operai alla forza commerciale, dai fornitori ai clienti. In fondo lo avevano chiamato per quello: per portare l’azienda ad un altro livello culturale, resosi necessario dalla positiva apertura della relazione di fornitura diretta con clienti multinazionali tedeschi, a cui non erano abituati e di cui conoscevano il modo di concepire la relazione di business solo attraverso poche forniture intermediate del passato. L’Ingegnere ricordava ancora molto bene come aveva portato dalla sua il CDA, puntando come suo solito sulla profondità delle parole e dei significati di cui sono cariche. La svolta era arrivata con la celebrazione della parola inglese shopfloor – come chiamano, soprattutto gli americani, la fabbrica – che dava quel senso di concretezza e piedi a terra sul pavimento (floor), che era servito a legittimare mentalmente gli operai, opportunamente abilitati, come portatori di innovazione. “Perché sono loro che sbattono davvero il naso contro i problemi e devono ingegnarsi a risolverli, per evitare che la linea di produzione, non solo dell’azienda, ma dell’intera filiera si fermi” aveva detto.
Così era nata l’idea del viaggio. Portare gli operai, che avrebbero avuto la responsabilità delle produzioni per il nuovo cliente, a vivere per qualche giorno lo stabilimento tedesco, che avrebbe poi ricevuto i loro prodotti. Lì eravamo diretti. E da lì gli operai scelti avrebbero portato a casa un pezzo di cultura diversa, l’avrebbero integrata nella loro, producendone una nuova e l’avrebbero poi diffusa in tutta la fabbrica, creando così un bacino potenziale di innovazione davvero capace di fare la differenza.
La fabbrica dove Salvatore lavorava veniva da anni di cultura della produzione, viziata dal regime di sudditanza al cliente dominante italiano e stampava pezzi come la Zecca di Stato (“produrre, consegnare e fatturare”). I problemi di qualità erano non-problemi, che in parte venivano mitigati con pratiche correttive poco ortodosse ed in parte attraversavano la filiera fino all’utilizzatore finale. Una cultura della (Non)-Qualità, per comprendere la quale ai tedeschi mancavano proprio le categorie mentali. Ebbene, portare quelle persone, quegli operai in uno stabilimento dove – per ordine e pulizia – potevi mangiare per terra, e far toccare con mano quella distanza tra i due approcci alla Qualità, ha fatto fare in poco tempo un salto culturale strabiliante, risvegliando l’orgoglio delle proprie capacità e propagandosi in tutta l’azienda, proprio perché veniva “dal basso”, se così vogliamo identificare con un termine arcaico quel tempio che è la Produzione, l’officina del fare.
E proprio così andò, pensò Salvatore, quando quattro anni dopo quel viaggio gli venne affidato il ruolo di innovation coach per il miglioramento continuo di tutta la fabbrica e la responsabilità di tutte le isole produttive per i clienti tedeschi, che nel frattempo erano diventati cinque ed erano arrivati a rappresentare un terzo del fatturato totale dell’impresa veneta. Minchia, Ingegné!
Questo racconto tratto dal libro R-INNOVARE IL FAMILY BUSINESS (Guerini, 2019) ci lascia una riflessione fondamentale: sarebbe andata così se l’autoreferenzialità dei consiglieri non si fosse lasciata addomesticare in referenzialità e capacità di confrontarsi piuttosto che rimanere intrappolata nell’eccessiva consapevolezza di sé che può far perdere la presa sulla realtà esterna e sulla complessità dei problemi cha la caratterizzano?
Il termine “autoreferenziale” deriva dalla logica, dove viene utilizzato per indicare un enunciato, una tesi che, in qualche modo, si riferisce già a sé stessa. Qui ci interessa però la sua trattazione da un punto di vista della psicologia umana ed i lavori di Franco Di Maria e Ivan Formica[2] ci possono aiutare ad entrare nelle dinamiche della nostra crescita individuale, tra la paura di perdersi, che attiva il bisogno di certezze rassicuranti (autoreferenzialità sterile), e la capacità di riscrivere e fare propri in maniera originale i modelli a cui ci riferiamo, attraverso la nostra creatività (autoreferenzialità generativa). Il fondamento per la crescita autonoma di ogni individuo è infatti il prodotto di due tensioni che la nostra mente è normalmente capace di equilibrare, sempre che il nostro ego, se abbagliato dal successo, non tenda a sovrascrivere la realtà che lo circonda.
Da un lato il nostro primo processo di apprendimento da bambini consiste nell’organizzare immagini e istruzioni in concetti che riflettono, ripetono e riproducono una conoscenza per adattarsi all’ambiente con il quale per forza ci dobbiamo identificare. Finché non ci affacciamo all’adolescenza, realizziamo la nostra identità ed esistenza attraverso la recita di copioni già scritti che ci danno le coordinate per sentirci parte del nucleo sociale in cui ci troviamo (che ad oggi ha, da questo punto di vista, la sua massima espressione nella famiglia). Lo stesso meccanismo è peraltro fondamentale e ci accompagna per tutta la vita se vogliamo apprendere e formarci su cose nuove.
Dall’altro con la crescita ci affacciamo a scenari mentali che ci aprono al nuovo e all’ignoto; iniziamo a pensare pensieri autonomi piuttosto che pensieri già pensati da altri altrove e il nostro linguaggio si fa originale e riflessivo piuttosto che riflettente un pensiero trasmesso dai nostri maestri. La maturità implica pertanto la capacità di ri-pensare i propri modelli di riferimento ed i propri paradigmi alla luce dei contesti in cui siamo inseriti e delle specificità delle nostre relazioni.
L’esito virtuoso dell’interazione tra pensiero riflettente e pensiero riflessivo è la costruzione della nostra identità e crescita autonoma. Nel pensiero riflettente filtriamo gli accadimenti col registro dell’anteriorità e del già noto, codificandoli come eventi, dal latino ex-venire ovvero l’attribuzione di un senso che avviene al di fuori della nostra elaborazione soggettiva, addomesticando l’evento nel registro del sapere già. Nel pensiero riflessivo trasformiamo l’accadimento elaborando un nostro personale senso simbolico intorno a quanto percepito. Attribuendogli un senso, trasformiamo l’accadimento in invenzione, dal latino in-venire, ovvero concependo dentro di noi il suo significato. Conoscere autonomamente la realtà significa dunque inventarla, invece che semplicemente rispecchiarla in un proprio sistema di percezione. Riusciamo così ad addomesticare quella parte della nostra autoreferenzialità – motore dell’apprendimento che inserisce nozioni in un contenitore rassicurante, in grado di sedare le nostre ansie dell’ignoto – con una componente critica e consapevole – motore dell’innovazione – frutto del nostro stile e della nostra cifra personale. Solo così possiamo dare un senso alle nostre storie ed alle trame relazionali e sociali che le sostengono.
Identità significa in ultima analisi permetterci di essere curiosi, di operare scelte originali, di farci una propria idea della vita e di riguardare il mondo che ci ri-guarda, digerendo i copioni pre-costituiti e l’assoggettamento ai gruppi a cui apparteniamo, che rappresenta ciò che chiamiamo apprendimento (ossia “prendere stabilmente dentro di sé”).
Se la chiave è dunque la creatività, impariamo a passare dal registro delle risposte al registro delle domande e sfuggiamo ai rischi di una posizione autoreferenziale eccessivamente sterile, che può arrivare a far sparire dentro a uno specchio la nostra impresa con la sua storia. Crescere è infatti l’iterativo del verbo creare e farlo egregiamente significa farlo discostandosi dal gregge (dal latino ex-grege) e dal già pensato, per rendere la nostra avventura imprenditoriale sempre originale. Ancor più se pensiamo alla complessità di relazioni che l’impresa familiare, più di quella manageriale, è chiamata a gestire e dal cui esito dipende la performance dell’impresa stessa: la rete di conoscenze familiari, il network organizzativo (i cosiddetti stakeholders interni, quali vertice strategico, linee manageriali, ruoli intermedi fino agli operai del fare) e quello ambientale (o stakeholders esterni, quali clienti, fornitori, banche, istituzioni e territorio).
Accendere e mantenere viva nel tempo la componente creativa e innovativa richiede forza di volontà, pazienza e allenamento finché essa non diventi uno stato mentale. Impedire alla scintilla creativa di spegnersi non solo soddisfa il calcolo economico, ma il ben più importante contratto fiduciario con tutti gli stakeholders che nell’impresa hanno messo speranze, sogni e aspettative. Dovrebbe dunque essere un dovere, non un’opzione discrezionale, perché la distruzione di valore prima ancora che immorale è un insulto alla nostra intelligenza.
[1] La caratterizzazione dell’industria degli elettrodomestici come industria del “bianco” risale alla seconda metà del secolo scorso per distinguere forni, frigoriferi, condizionatori, lavatrici e lavastoviglie (apparati più elettromeccanici che elettronici) dagli elettrodomestici elettronici cosiddetti “bruni” – quali televisori, impianti stereo, lettori e registratori di CD e DVD o videocamere – così chiamati per la tradizionale finitura in bachelite o legno, che contraddistingueva gli apparati elettronici per il divertimento.
[2] Franco Di Maria è Professore Emerito di Psicologia Dinamica nell’Università degli Studi di Palermo. Tra le sue pubblicazioni: “Psiche e società” (Angeli, 2007); “Elementi di psicologia dei gruppi” (McGraw-Hill, 2004) e “Psicologia del benessere sociale” (McGraw-Hill, 2002). Ivan Formica, psicologo e psicoterapeuta è ricercatore in Psicologia dinamica, e docente di Psicologia dinamica nel Corso di laurea in Scienze e tecniche psicologiche presso l’Università di Messina.
[In copertina quadro di René Magritte]
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