Altri sport

Ecco perché investire negli “altri sport” è un affare

13 Febbraio 2017

Nonostante il dominio esercitato dal calcio sul pubblico italiano, le discipline alternative rappresentano un’opportunità da non perdere. La case history del rugby dimostra come un’efficace strategia di marketing possa colmare l’oggettivo divario in termini di appassionati e copertura mediatica. Con risultati eccezionali

Quando un brand decide di investire in una campagna promozionale, sovente capita che l’ambito di elezione sia lo sport, per una serie di ragioni concomitanti. Si tratta in primo luogo di un linguaggio universale, attraverso il quale si arriva contemporaneamente e facilmente a persone di diversa etnia, lingua, religione e ceto sociale.

E’ una passione che permea la vita delle persone: in Italia, nonostante una cultura sportiva non particolarmente sviluppata, una persona su tre pratica regolarmente almeno una disciplina. Tra le attività per il tempo libero, è quella che meglio ha resistito all’impatto della crisi economica, perdendo solo qualche punto percentuale nei momenti più duri e tornando a salire a partire dal 2015, quando altri comparti ancora non osano nemmeno parlare di ripresa.

Non si deve però pensare che sia una sorta di Eldorado della comunicazione, nel quale ogni mossa va magicamente a cogliere nel segno. Al contrario, vi sono delle strategie che ormai si sono dimostrate meritevoli di revisione.

Prendiamo ad esempio la facile scorciatoia rappresentata da un investimento nel mondo del calcio. Pur amando profondamente questo sport (non per nulla sono tra i fondatori di un’associazione che si chiama “W il Calcio”), da professionista non posso che evidenziare alcuni limiti di una scelta del genere. Abbiamo di recente affrontato il tema della “crisi di identità” relativa alle sponsorship del pallone, che però continuano ad allettare gli uffici marketing in nome di una logica lineare: a fronte di investimenti non più proibitivi come negli anni d’oro del campionato italiano, questa scelta conferisce ampia visibilità al proprio brand.

Certo, ma il ragionamento contiene lo stesso errore che si commette quando per le medesime ragioni si sceglie una campagna sulla tv generalista, in luogo di strategie più mirate. Per quanto i costi siano scesi, ciò che si ottiene in cambio è un target molto disomogeneo, con il rischio che alla fine il risultato comunque non giustifichi lo sforzo economico. Nell’era della verticalizzazione, essere troppo popolari non sempre paga.

In altri casi, l’operazione non rende secondo le attese perché si associa il brand ad un ambiente spesso associato a valenze negative quali doping, scommesse, partite truccate, bilanci fasulli, violenza negli stadi e altre patologie del sistema. E’ lo stesso problema che ha fortemente penalizzato il ciclismo.
In sintesi, il pallone va benissimo se si punta ad un mercato di vasta estensione o si è certi dei contenuti etici di chi si va a sponsorizzare. Ad esempio W il Calcio, se mi passate la battuta. Altrimenti, è molto meglio rivolgersi ad altri settori.

Un’altra variabile da tenere in seria considerazione è quella del bacino d’utenza. Molte aziende destinano parte dei loro utili ad attività sportive sul proprio territorio di riferimento. E’ una scelta molto nobile e anche intelligente: in questo modo si fortifica il legame con la comunità ed anche con le pubbliche amministrazioni locali, che con le drammatiche restrizioni economiche che si trovano ad affrontare sono felicissime che qualcun altro sostenga lo sport al posto loro, oltretutto contribuendo a dare un’immagine positiva della città in questione e facendo contenti i simpatizzanti, che solitamente sono anche gli elettori.

Da queste sinergie spesso nascono progetti di estremo valore sociale, ma è una ricetta che funziona bene se l’ambito operativo e quello commerciale dell’azienda coincidono. E’ molto diverso nel diffuso caso di grandi aziende con la sede in un piccolo comune: con l’investimento locale esse hanno a disposizione un target troppo piccolo per gli obiettivi da raggiungere, al contrario di quanto accade appoggiandosi al calcio professionistico.

Ecco perché bisogna guardare con sempre maggiore interesse agli “altri sport”, espressione che non amo particolarmente, ma che comunque è meglio dell’insopportabile “sport minori”. Minori rispetto a cosa?

L’esempio del rugby è particolarmente illuminante: in raffronto al calcio, alle discipline alternative manca soprattutto un sostegno di tipo economico e manageriale per uscire dalle rispettive nicchie, anche se agganciare il gioco più popolare del mondo è chiaramente impossibile.

Ma la palla ovale, appunto, ha dimostrato come lo straordinario lavoro di marketing che l’ha fatta decollare ormai oltre una decina di anni fa continui a produrre effetti ancora oggi, nonostante la nazionale azzurra e i nostri club vengano regolarmente frantumati dagli avversari. Complimenti sinceri a chi ha sviluppato questa strategia, perché il successo del rugby in un Paese come il nostro (non esattamente incline al rispetto delle regole e allo spirito sportivo) si basa essenzialmente su di essa. Gli 80.000 spettatori a San Siro per la sfida tra Italia e la Nuova Zelanda del 2009 rappresentano l’apice di una curva di popolarità ancora lontana dall’esaurirsi. E se gli All Blacks sono uno straordinario brand sportivo che vale circa 170 milioni di dollari, livelli da Champions League del calcio, va detto che si tratta veramente di un unicum in questo pur bellissimo sport.

Chi attribuisce il perdurante successo del rugby alla sua dimensione eroica ed ai valori che propugna non dice una cosa falsa, bensì incompleta. Ed evidentemente non conosce la realtà degli altri sport: frequentate la lotta, il nuoto, l’hockey, la boxe o qualunque altra disciplina e senza troppa fatica vi scoprirete gli stessi identici valori positivi del rugby, solo raccontati meno e peggio.

Proprio questa carenza di storytelling rappresenta un’opportunità da cogliere al volo: gli altri sport rappresentano un mercato ancora ampiamente inesplorato, nel quale investimenti alla portata dei comuni mortali, anche in co-marketing, possono dare ritorni decisamente ragguardevoli, specialmente su target specifici e particolari nicchie di mercato.

Se un tempo rivolgersi al calcio era una scelta obbligata per uscire dall’anonimato, oggi è necessario distinguersi attraverso scelte mirate che rafforzino l’identificazione tra i consumatori ed il proprio brand, sfruttando l’eccezionale potere evocativo dello sport veramente pulito e a dimensione d’uomo.

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