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Da costruttore di mine a sminatore, la doppia vita di Fontana diventa un film

4 Aprile 2016

“Al coraggio bisogna sostituire la paura e all’entusiasmo il metodo, quando sei sul campo. Ogni mina provoca indignazione, ma se ti fai fregare e ti lasci prendere dalla rabbia o dall’esaltazione, è finita”. Le regole da adottare su un campo minato Vito Alfieri Fontana le conosce bene, sembra averle incise nella mente, indelebili. Le ripeteva sempre alla sua squadra durante il periodo trascorso in Bosnia come sminatore fino al 2012. Oggi, parla al presente, come se quei campi non li avesse mai abbandonati. Vito Alfieri Fontana, però, non è stato un semplice sminatore, prima di dedicare dodici anni della sua vita all’attività di sminamemto, le mine le progettava e le vendeva. L’azienda di famiglia, la Tecnovar, una fabbrica pugliese specializzata nella produzione di mine antiuomo e anticarro che con i suoi 20 milioni di ordigni ha causato fino al 1997 molte vittime in diversi scenari di guerra, era uno dei principali produttori al mondo.

La sua vita, doppia, è raccontata in maniera puntuale e affascinante, dal documentario Il Successore, del regista salentino Mattia Epifani, Fluid Produzioni, scritto a quattro mani con Francesco Lefons. Il lavoro descrive in maniera quasi perfetta la duplice coscienza di un uomo e il peso della sua successione, un cammino già tracciato, designato come il successore dell’azienda di famiglia. Poi, un incontro con Don Tonino Bello e un figlio che a otto anni lo crede un assassino, il conflitto di coscienza, l’esigenza di lasciare tutto, la decisione di chiudere la fabbrica e reinventarsi una vita. Da quel momento, dal 1999, l’ingegner Fontana vestirà i panni di Vito, capo di un team di sminamento in Kosovo, e poi in Bosnia, contribuendo alla bonifica di oltre 100 siti. Una domanda, però, lo perseguita: quante vittime avrà causato la Tecnovar? Il documentario sta avendo un successo nazionale e internazionale, con premi, riconoscimenti e menzioni speciali. Oggi, 4 aprile, La Città Metropolitana di Milano, in occasione della IXª Giornata mondiale per la promozione e l’assistenza all’azione contro le mine, organizza un ciclo di proiezioni del documentario, e riporta lo spettatore faccia a faccia con una guerra che pare essere quasi dimenticata, attraverso brevi flash sul conflitto jugoslavo dei primi anni ‘90. Sullo sfondo, una Bosnia Erzegovina immobile, paesaggi silenziosi, scenari muti. Un teatro post bellico dove ancora oggi sono attive squadre di sminatori, una ferita aperta, con problemi e limiti di un sistema, quello dello sminamento, che sembra molto lontano dall’essere risolto.
La Bosnia, infatti, secondo i dati ufficiali del BHMAC (Bosnia and Erzegovina Mine Action Center), l’ente preposto al coordinamento e alla supervisione di tutte le attività di sminamento, è ancora uno dei paesi più contaminati da mine del Sud Est Europa. La presenza di mine si aggira intorno alle 120.000 unità con una superficie contaminata pari a 1.176 km/q, ovvero il 2,3% del Paese. L’area più colpita è quella compresa nella zona di confine tra l’entità serbo-bosniaca e croato-musulmana (un’area lunga 1.100km e larga 4 km), poiché molte mine sono state lanciate dopo gli accordi di Dayton dai due eserciti che, non fidandosi, si sono ritirati lasciando i campi minati. L’area agricola nella regione della Posavina, insieme alla regione Doboj, ha le zone più pesantemente contaminate. Nel 1997, il Paese firma il trattato di Ottawa, una convenzione internazionale per la proibizione dell’uso, stoccaggio, produzione, vendita di mine antiuomo e relativa distruzione, ma non riesce a raggiungere l’obiettivo iniziale, ovvero ripulire i terreni nell’arco di dieci anni. La scadenza, così, viene prorogata al 2019. Ma anche questa volta, stando ai numeri e alle statistiche, l’obiettivo sembra irraggiungibile: in Bosnia Erzegovina, infatti, i ritrovamenti di mine si aggirano intorno a una media di 4.000 mila unità all’anno, il che vuol dire che ci vorrebbero almeno altri trenta anni per bonificare tutta l’area. Quello numerico, però, non pare essere il problema principale del sistema di sminamento. Da quando i fondi sono diminuiti, molte Ong hanno abbandonato i lavori e il sistema è finito nelle mani di compagnie commerciali, i problemi sono aumentati e risultano essere politici e finanziari, più che tecnici o numerici. Ma cosa sta accadendo in Bosnia Erzegovina a 20 anni dal conflitto?

C’è un sistema, quello dello sminamento, corrotto e compromesso, con problemi e limiti di cui i report ufficiali non parlano. Per capirne di più e analizzare il tutto, l’ingegner Fontana mi dà appuntamento in quello che era il vecchio studio di suo padre, a Bari. Seduto dietro a quella scrivania, inizia il racconto di una vita, parole e trame si rincorrono, dall’azienda al lavoro sul campo, dalla nostalgia alla rabbia, dall’analisi di dati a osservazioni puntali e dettagliate. Vito Alfieri Fontana è un’istituzione in materia e comincia nel raccontarmi delle sue giornate da caposquadra del team che guidava in Bosnia per conto dell’Ong italiana Intersos, passaggio essenziale per capire com’è cambiato il sistema e quali sono i problemi oggi. “La giornata di uno sminatore inizia alle 7/7.30 di mattina -racconta- ci si riunisce in sala riunioni, l’infermiere controlla che siano tutti in buone condizioni di salute, lucidi e svegli. Poi si parte verso il cantiere. Ogni sminatore, vestito di tutto punto, con casco e veste antischeggia per proteggere le arterie inguinali, ascellari e giugulari, si posiziona sul suo corridoio di competenza. Il terreno, infatti, è suddiviso per corridoi, posti a una distanza di sicurezza l’uno dall’altro di circa 20/25 metri. Si comincia la bonifica, ogni uomo lavora per mezz’ora, poi trenta minuti di stacco, essenziali perché dopo un po’ la soglia del pericolo si abbassa, si lavora per 7/8 ore per 5 giorni alla settimana. E si fa così per giorni e giorni, 30 cm per volta. Il 70% del tempo, uno sminatore lo passa nel tagliare la vegetazione davanti a sé , nell’esaminarla, a mani nude, senza guanti, come se fosse un pianista”- spiega, mimando il gesto lentamente- per vedere se ci sono fili di ferro, poi si procede nel tagliare l’erba fino a un’altezza massima di 10 cm (distanza ottimale), la si analizza col metal detector e, nel caso di segnale acustico, si interviene con uno spillone, lungo 30 cm, si inizia a sondare il terreno intorno, se impatta con qualcosa di duro e significativo vuol dire che c’è una mina. A quel punto, lo sminatore si ferma, chiama il caposquadra, è lui che decide se la mina va lasciata sul posto o eliminata. In tal caso, si chiama l’artificiere che ha due possibilità davanti: distruggere sul posto la mina, chiudendo il corridoio, o portarla via dopo averla disattivata”, spiega. Fontana analizza il lavoro che svolgeva sul campo, nei minimi dettagli, sembra un database umano, quando li ha tra le mani conosce dettagli tecnici e provenienza di ogni singolo ordigno, “una volta mi son ritrovato una mina sperimentale prodotta dalla Tecnovar, non ci potevo credere, era la risposta della nostra azienda a un bando Nato. Una mina consegnata all’esercito italiano, forse rivenduta dai mercanti d’armi, costruita nel 1966, non me ne posso sentir responsabile, avevo solo 14 anni, ma mi son chiesto sempre come abbia fatto ad arrivare fin lì”.

È il 2012 quando Vito Alfieri Fontana lascia la Bosnia, qualche anno dopo Intersos abbandona i lavori nel Paese. La squadra viene smantellata, molti dei suoi perdono l’incarico, fra rabbia e incredulità. Sono molti gli sminatori che, negli ultimi anni, hanno lasciato il Paese per offrire il loro know-how ad altri Stati. La Bosnia Erzegovina ha all’interno i più formati esperti sminatori del mondo, secondo studi recenti, ma per via della disoccupazione, di un sistema compromesso, di minimi sindacali non garantiti e di salari bassi, in tanti hanno deciso di espatriare per cercare fortuna in Afghanistan o in Iraq, dove mensilmente uno sminatore riesce a prendere dai 3000 ai 4000 euro, a fronte degli stipendi locali che sono passati dai 3/4 milioni di vecchie lire ai 300/400 euro mensili. “Nella migliore delle ipotesi”, spiega Fontana, “nei casi più efferati, invece, lo sminatore deve lasciare una parte della sua busta paga al datore di lavoro”. Dal 2012 ad oggi, le cose in Bosnia son cambiate, il sistema è nelle mani delle compagnie commerciali, inserite in una struttura politica instabile e debole, da quando molte Ong di tipo umanitario hanno deciso di andarsene (tranne una, NPA – Norwegian People’s Aid). Ed è a questo punto che iniziano i problemi più grossi.

Le compagnie commerciali lavorano sulla base di gare d’appalto. Il prezzo è determinato dalle offerte presentate durante la gara, l’offerta migliore coincide con il prezzo più basso, il background, il piano e la capacità dell’organizzazione passano in secondo piano. Una volta aggiudicatisi il cantiere ci sono due possibilità: il lavoro resta nelle mani della compagnia vincitrice o, con la diffusa pratica del subappalto, finisce nelle mani di un’altra compagnia, ignota, senza sapere quanti e quali sminatori stiano lavorando su un terreno. Può succedere, così, che la compagnia dichiari la presenza di dieci sminatori sul campo, ma ne faccia lavorare la metà, aumentando la mole di lavoro o costringendoli a lavorare a cottimo: più metri quadrati fai, più guadagni. Quello della fretta per potersi accaparrare l’appalto successivo e della conseguente mancanza di sicurezza è una prassi consolidata nell’ambito delle compagnie commerciali: le Ong, infatti, non dipendendo da gare d’appalto, chiedono al donatore altri finanziamenti e prorogano la scadenza, ma per le ditte commerciali la questione è diversa.

Il circolo è questo: più fretta, meno sicurezza, meno rispetto delle procedure da adottare sul campo, più incidenti sul lavoro. L’unica necessità delle ditte è il profitto, ogni misura di sicurezza è azzerata. Come nel caso delle Prom 1, le mine a forma di bottiglia, dal cui tappo partono quattro antennine che spuntano dal terreno. Questa tipologia di mine può esplodere al minimo tocco e richiede una procedura particolare. “Ti faccio un esempio -spiega l’ingegnere- per la procedura che richiedono rallentano di molto il lavoro, poiché andrebbero isolate e distrutte da un artificiere, non disinnescate, sono mine che saltano con niente, ma alcune ditte per non fermare i lavori decidono di fregarsene della procedura e cercano di disattivare la mina. Una mossa pericolosissima, fatta in due, uno accovacciato che tenta di disinnescarla e uno che fa da palo”, spiega Fontana. Così, se tutto va bene, il cantiere procede i suoi lavori, senza rallentamenti, in tutta velocità, si dichiara il ritrovamento di una Prom già disattivata e il gioco è fatto. Se qualcosa va male, però, ci scappa un morto e un ferito grave. Ma si è trattato di un incidente, un semplice incidente. “I verbali vengono compilati dalla ditta che, nella maggior parte dei casi, contratta e paga direttamente la famiglia della vittima, per evitare di aprire l’assicurazione e aumentare il premio l’anno successivo, viene data una miseria rispetto a quello che toccherebbe alle famiglie, ma quei soldi servono e, allora, che fai? Lasci le famiglie sul lastrico? La colpa è dello sminatore, della sua poca attenzione, sarà inciampato, scivolato, perché se si dichiara che lo sminatore stesse praticando una procedura non regolare i soldi non arrivano. Alle ditte questa procedura fa comodo, d’altronde i registri sono tutti apposto, le carte in ordine, la ditta sconta un mese di sospensione, per poi riprendere i lavori come se niente fosse successo”, spiega Fontana, con rabbia. “Qua stiamo parlando di vite umane ma, si sa, dopo la morte di una persona i calcoli che si fanno sono tutti puramente economici”, aggiunge.

Secondo l’ultimo rapporto del 2015, pubblicato da LandMine and Cluster Munition Monitor , le vittime di mine dal 1992 sono 8.335, 2.009 solo dopo la guerra, di cui 1.839 morti e 6.049 feriti. 116 le vittime tra gli sminatori dal 1996 al 2014. Ma se il numero di incidenti civili, negli ultimi anni, tende a diminuire, grazie al lavoro svolto da Mine Risk Education, a cui mediamente viene destinato il 30% dei fondi, volto ad educare e a sensibilizzare i gruppi a rischio nelle comunità in cui le mine rappresentano un problema (bambini in età scolastica, associazioni, cacciatori, boscaioli, agricoltori), il numero di incidenti di sminatori sui campi, pur diminuendo, fa riflettere perché legato quasi sempre a compagnie commerciali. “Con una media di 3/4 sminatori l’anno”, dice Fontana.
L’ingegnere fa un’analisi puntuale del sistema e si sofferma su un altro grave problema legato anche questa volta, a suo avviso, alle compagnie commerciali: “C’è un altro aspetto, di cui nessuno vuole parlare e non so perché, un problema che è potenzialmente rischiosissimo: una mina ritrovata è una mina che va distrutta. Ma, per questioni di sicurezza e per normative antiterrorismo, le Ong autorizzate a tenere esplosivo per la distruzione delle mine saranno due o tre e si fan pagare ogni intervento 300/400 euro, procedura che non è prevista nel ribasso d’asta, ovviamente. Quindi le compagnie commerciali, in quel caso, dovrebbero fermare i lavori e chiamare gli addetti alla distruzione. Capita, però, che a volte nel caso delle compagnie commerciali le mine non vengano distrutte, le procedure non rispettate, e gli ordigni dispersi, nascosti o rivenduti a qualche gruppo paramilitare” per intascare i soldi destinati alla distruzione e, perché no, guadagnarne degli altri, sebbene la Bosnia Erzegovina, firmataria del trattato di Ottawa, non può più né produrre né immagazzinare mine. “Quindi una sorta di mercato nero delle mine?”, chiedo. “Di cui non ho prova, ma ogni logica dice di sì. Non si sa che fine fanno questi ordigni, è evidente però che i conti non tornano, perché rispetto alle mappe che vengono date dei campi minati, il numero di mine è infimo, però i donatori internazionali di questo se ne fregano, loro vogliono i metri quadri. Diecimila metri quadri, una mina. Com’è possibile? I dati parlano chiaro e la stessa Intersos trovava una mina ogni 100 metri quadri. Il problema è che chi fa le gare d’appalto non fa la stima delle mine che potrebbero essere potenzialmente presenti su un terreno, avendo tutta la possibilità di farlo”, spiega. (Figura 1, Compagnie a confronto, fonte dati BHMAC)

Nell’aprile del 2014 il direttore del BHMAC, Dušan Gavran, viene arrestato, con l’accusa di abuso d’ufficio, profitti illeciti e irregolarità nelle gare d’appalto. Lo staff del BHMAC ripulito e, forse, oggi il Paese può sperare che il sistema e le cose possano cambiare. “Hanno avuto la loro mani pulite -dice Fontana- oggi nel BHMAC lavorano persone incorruttibili, uomini che avevano sbattuto nelle sedi periferiche e che hanno richiamato all’occorrenza, voglio sperare che le cose andranno in maniera diversa, l’obiettivo è zero vittime. Certo qualcuno continuerà a farla sotto il naso, le porcherie continueranno ad esistere, ma se il sistema è saldo le cose, forse, possono migliorare”.

Prima di salutarmi, Fontana analizza cartine e dati, passa in rassegna foto e mi spiega i dettagli tecnici di ogni arma, è pur sempre un ingegnere. Fra tutte quelle immagini, nel suo archivio, ne salta all’occhio una, la più bella, quella di due vecchini, un uomo e una donna, che si riappropriano dei loro terreni dopo la bonifica e lavorano su quei campi. Fontana sorride perché le sensazioni di ritrovarsi su un campo bonificato sono indescrivibili. È libertà pura. Alla fine della lunga chiacchierata, prima di salutarci, faccio notare che nei suoi discorsi, in quei ricordi, parla al presente e chiedo quanto grande sia la voglia di ritornare su quel campo. “Quella è tutta la mia vita, anche questo studio, vedi, questo tavolo mi ricorda il mio ufficio in Bosnia. Qui sopra era pieno di mappe. Se potessi, su quel campo, ci tornei domani”. Lo ringrazio e lo saluto.

Mentre percorro in treno la strada che mi riporta verso casa, ho fra le mani statistiche, documenti, dossier e  immagini. Numeri che parlano, vittime, corruzione, un sistema compromesso e luoghi avvolti dal silenzio, a pochi chilometri di distanza da qui. Più a est, c’è una Bosnia Erzegovina ancora ferita, un sistema che stenta a raggiungere gli obiettivi e una guerra che, a distanza di vent’anni, lascia dei vuoti profondi. Tra una fermata e l’altra, affiorano pensieri e torna in mente una frase dell’ingegnere: “Non dimenticherò mai -mi dice con un velo di malinconia- il silenzio che avvolgeva quei luoghi. Un giorno, ci chiamarono per verificare la presenza di mine in una fossa comune, le famiglie rivolevano indietro i corpi su cui piangere. Entrati in quel bosco, davanti a noi, una scena suggestiva. La natura si era palesata proprio davanti ai nostri occhi: i serpenti lasciavano delle tracce nell’erba al loro passaggio, quelli che sembravano dei fiori marroni, d’un tratto, si rivelarono essere farfalle, tante farfalle, una nuvola di farfalle in volo. Era qualcosa di meraviglioso, indescrivibile. Intorno solo il silenzio, qualcuno pregava, altri erano bianchi in volto, sotto i nostri piedi, i corpi affossati. La bellezza chiedeva inutilmente pietà, come se tutto intorno a noi volesse dirci: cos’altro volete ancora? Cos’altro?”.

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