Imprenditori
“Chi non lavora…” Della vita e della morte di un paese
Due notizie a confronto: un giovane grafico di trent’anni che decide di togliersi la vita perché non trova lavoro e non riesce più a reggere il peso di un’esistenza senza futuro, una donna assunta al nono mese di gravidanza perché il suo datore di lavoro in quel futuro ha voluto credere.
Il problema in Italia non è solo la crisi, uno spauracchio che per molti è diventato una scusa di comodo per dire “non rischio e non investo“. Il problema nel nostro paese, in molti casi, è legato alla visione imprenditoriale. L’imprenditore – colui che “tenta l’impresa” – è sempre stato colui che si assumeva il rischio: un’idea, un progetto, la volontà di realizzarlo e “farlo crescere” con tutti i rischi che questo comporta. Le grandi aziende che hanno fatto la storia sono partite da questo presupposto, le più innovative, pensiamo alla Olivetti, hanno saputo coniugare il lavoro e il profitto con la cura per i dipendenti, per le loro famiglie, per la loro formazione culturale. Non per “bontà”, ma per un investimento su quella che al tempo era la “forza lavoro” e oggi, con un lavoro sempre più dequalificato e dequalificante, ironicamente viene definito capitale umano. Un capitale che non viene messo a frutto, con pesanti ricadute sulla competitività della nostra economia (che non può certo “giocarsela”, in epoca globale, in termini quantitativi con le grandi realtà internazionali, ma che dovrebbe investire sull’alta qualità e l’innovazione) non solo per quanto riguarda la produzione di beni e servizi, ma anche per i consumi. Se non lavoro o lavoro precariamente ho una bassa qualità della vita. Una bassa qualità della vita implica consumi ridotti. I consumi ridotti implicano che “l’economia non gira”, ma anche che non s’investe in futuro: perché i giovani non possono essere autonomi, perché chi ha una piccola autonomia vive “in difesa”, perché le generazioni più anziane funzionano da cuscinetto sociale rispetto alle più giovani, con una radicale inversione di ruoli nella tradizione del welfare familiare all’italiana.
Non è solo la crisi globale e soprattutto bisognerebbe avere l’onestà intellettuale di non parlare più di crisi, ma di mutamento delle logiche di produzione e consumo.
I tempi sono cambiati e continuare a pensare a come “uscire dalla crisi” sarebbe come pensare che, ai tempi della rivoluzione industriale, qualcuno avesse pensato di risolvere i problemi maturati con il cambiamento con la distruzione delle macchine. Forse fa sorridere, ma al luddismo non è andata bene e attualmente stiamo facendo esattamente la stessa cosa. Al posto d’immaginare nuovi scenari combattiamo inutilmente una battaglia contro un sistema andato in crisi e profondamente mutato. Machiavelli, nel Principe, spiegava come esistessero al tempo due tipologie di milizie a difesa dello stato: quelle dei mercenari e quelle degli uomini liberi. I primi avrebbero malamente difeso i territori dai nemici, motivati dal solo compenso, i secondi avrebbero difeso la loro libertà e con la loro liberà quella del signore/governo. Credo che questo bene si leghi al discorso dell’impresa: generazioni di “mercenari” armati uno contro l’altro per sopravvivere in un mondo di lavori precari non potranno mai produrre innovazione, nè essere il motore per il tanto atteso rilancio del Paese.
In questo contesto le politiche per il lavoro sono fondamentali, ma non bastano. Occorre che avvenga una piccola rivoluzione culturale nella mentalità imprenditoriale italiana. Occorre che gli imprenditori recuperino il senso, quasi etimologico del loro ruolo, che sappiano fare impresa, investire in un progetto e nelle persone che possono curare quel progetto.
Occorre che si scelga fra il futuro e l’assenza di futuro e farlo prima che il futuro venga, poco alla volta, meno.
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