Imprenditori
A Modest Proposal: perché l’idea di Orlando non è La Corazzata Potemkin
Il vicesegretario del PD Andrea Orlando ha rilasciato un’intervista pubblicata il 7 maggio sul quotidiano La Stampa, affermando che il capitale delle imprese non deve essere partecipato dallo Stato in astratto, ma che lo Stato potrebbe “entrare” per un determinato periodo, in modo da garantire che l’impresa mantenga gli impegni assunti nel momento in cui riceve finanziamenti a fondo perduto da parte dello Stato. La proposta può essere una buona idea, anche se a leggere i commenti apparsi sui giornali non sembrerebbe affatto.
In “A Modest Proposal”, famoso pamphlet satirico dello scrittore irlandese Jonathan Swift, viene illustrata una possibile soluzione del problema della sovrappopolazione tra i cattolici irlandesi. La proposta dell’autore consiste nell’ingrassare i bambini poveri e darli da mangiare ai ricchi proprietari terrieri anglo-irlandesi. Così facendo, i poveri risparmierebbero il costo del nutrimento (futuro) dei figli godendo di entrate, mentre i ricchi avrebbero cibo e trasferirebbero risorse ai poveri, con miglioramento del benessere economico dell’intera nazione.
Leggendo i giornali di questi giorni, sembra che qualcuno abbia preso la proposta del vicesegretario del PD Orlando di soluzione della crisi delle imprese derivante dall’emergenza epidemiologica, per un remake di quella di Swift, con lo Stato che entra nel capitale delle imprese nella veste dei ricchi e le imprese danneggiate dall’epidemia che vengono così cannibalizzate nella veste dei figli dei poveri. Fioriscono critiche che evocano i fantasmi dei “carrozzoni pubblici”, contestano la “statalizzazione”, la “sovietizzazione”, l’attentato al santo libero mercato, financo lo “stalinismo” della proposta.
Sembra palese che queste critiche siano strumentali alla lotta politica. Nessuno (tantomeno Orlando) risulta aver preteso la cessione dei beni, a natiche denudate, prevista per i falliti nell’antica Roma, allorché il fallito doveva gridare “cedo bona”. La proposta di Orlando può invece essere apprezzabile, specie se la si valuta liberi da pregiudizi ideologici… e da quanto Orlando non ha mai detto. Certo, occorre un qualche compromesso con i principi del libero mercato, ma non tanto per motivi ideologici, quanto per diretta conseguenza dell’intervento pubblico, richiesto a gran voce anche dai più liberisti. E’ convinzione comune che la crisi epidemiologica rappresenta un evento che il libero mercato potrebbe metabolizzare soltanto con la distruzione di interi settori industriali.
La proposta pare riecheggiare uno degli strumenti di soluzione della crisi di impresa più efficienti, anche se non tra i più gettonati, che è l’accordo di ristrutturazione del debito, nella versione prevista per soggetti fallibili dall’art. 182 bis della vigente (sino al 2021, visto il rinvio dell’entrata in vigore del neonato Codice della Crisi d’Impresa) legge fallimentare. Tale strumento si dimostra maggiormente efficace laddove l’indebitamento maggiore sia nei confronti del ceto bancario, ormai strutturato e abituato a gestire la crisi dei propri clienti. In questi casi, le banche spesso concedono un write-off, lo stralcio del proprio credito, a fronte di una iniezione di capitale da parte del socio, che in tal modo, non solo mette a disposizione dell’impresa il capitale necessario per il risanamento dell’impresa, dando solidità alla ristrutturazione del debito, ma dimostra anche di credere nel rilancio e nel risanamento, il che non è affatto secondario se si considera che sarà lo stesso imprenditore a doverlo mettere in atto.
In queste situazioni è frequente l’intervento di un Chief Restructuring Officer (CRO), o Turnaround Manager (TM), figura mai formalizzata dal legislatore e rimasta per lo più appannaggio degli accordi con le banche e della prassi. Le competenze del CRO non sono definibili aprioristicamente ma vengono individuate sulla base del contenuto dell’accordo di ristrutturazione, rispetto al quale riveste ruoli esecutivi o come minimo di sorveglianza, coadiuvando l’imprenditore nell’attuare le politiche aziendali concordate con i creditori e volte al risanamento aziendale.
Non si vede perché non trarre da una esperienza (tutto sommato) di successo spunto per una soluzione della crisi attuale, e cogliere che la proposta Orlando può andare nella stessa direzione. E’ ormai chiaro a tutti che le misure inizialmente approvate dalle istituzioni europee e riversate in una certa misura nel c.d. “Decreto Liquidità” sono del tutto inadeguate ad affrontare le conseguenze della crisi epidemiologica da Covid 19, riscontrabili solo (in parte) ora, dopo l’adozione delle prime misure. In virtù di tale crisi, infatti, le imprese hanno subito un danno, più o meno rilevante, che ha compromesso l’equilibrio economico dell’esercizio in corso (e ancora è difficile fare previsioni sul futuro), con pesanti conseguenze di natura patrimoniale destinate a riflettersi sul merito creditizio. Ben venga l’afflusso di liquidità alle imprese per risolvere i problemi di cassa, ma se ciò avviene mediante aumento dell’indebitamento non si pone rimedio al riflesso patrimoniale della crisi, destinata prima o poi ad esplodere con effetto dirompente.
Un rimedio idoneo a rimuovere i danni arrecati dalla crisi è dato solo da contributi a fondo perduto. Tuttavia, il contributo a fondo perduto non fa che spostare il danno patrimoniale su un soggetto terzo, in questo caso lo Stato, che finirebbe per essere danneggiato al posto dei privati che andrebbe a salvare. Questa soluzione non è ottimale, pur adempiendo a fini solidaristici: di fatto, pubblicizza un danno privato, che viene posto a carico di tutti i cittadini, evitando che gravi solo su alcuni imprenditori, destinati altrimenti a soccombere.
Una soluzione migliore e non troppo dissimile, è quella di un contributo di quasi-capitale, nella forma meno invasiva possibile, vale a dire il versamento in conto futuro aumento di capitale. Tale versamento, possibile anche da parte di non soci, darebbe diritto alla restituzione qualora non venisse adottata una delibera di aumento di capitale entro un dato termine convenzionalmente determinato (che in questo caso sarà sufficientemente lungo, ben oltre i 6 anni previsti per i prestiti-ponte del Decreto Liquidità). In questo caso, lo Stato potrebbe preservare un qualche valore nel credito o nella partecipazione nell’impresa privata, che potrà essere in futuro realizzata. Ai soci (e a quanto ci riserverà la sorte) sarà rimesso decidere se restituire la somma allo stato o deliberare l’aumento di capitale, accettando così di avere un nuovo socio pubblico, che potrebbe essere non particolarmente apprezzato. Nell’immediato, a fronte della costituzione di riserve di capitale con fondi pubblici, si chiederebbe al socio di fare altrettanto con fondi propri.
A questo punto resterebbe da affrontare il tema del CRO, che sembra di capire sia la vera pietra dello scandalo (su cui pare peraltro che Andrea Orlando non abbia mai preteso venissero posti gli imprenditori in difficoltà), ovvero l’ingresso dello Stato nel CdA delle imprese così “capitalizzate”. Allontanando lo spauracchio del burocrate che entra nel Cda, si potrebbe invece pensare all’assunzione da parte di uno dei consiglieri, di gradimento dell’ente finanziatore, del compito del CRO, vale a dire di vigilanza che l’impresa rispetti criteri di correttezza operativa e i cosiddetti “covenants” che negli accordi di ristrutturazione vengono concordati tra l’impresa e il ceto creditorio e che qui verrebbero concordati in un accordo di finanziamento standardizzato (la parte più discutibile della proposta Orlando sono proprio questi condizionamenti, che si vorrebbero legati a finalità di politica economica anzichè al risanamento dell’impresa per perseguire il recupero dei fondi pubblici, come dovrebbe essere). Certo, nella ristrutturazione del debito la pattuizione di covenants ha una maggior motivazione se si considera che i creditori si trovano loro malgrado coinvolti in una crisi di cui l’imprenditore è il maggior responsabile, mentre nella crisi epidemiologica l’imprenditore non ha responsabilità, ma il recupero delle somme erogate dallo stato e il relativo interesse pubblico giustifica un minimo di sacrifico della discrezionalità dell’imprenditore. Qualora nessuno degli amministratori della società finanziata si sentisse in grado di assumere tale responsabilità, si potrebbe ricorrere ad una figura esterna al Cda con compiti di sorveglianza, da individuarsi nel bacino dei professionisti già oggi utilizzati come attestatori degli accordi di ristrutturazione, commissari giudiziali o gestori della crisi da sovraindebitamento (che potrebbero stilare dei rapporti periodici da sottoporre all’ente erogatore).
Sembrerebbe così di poter salvare la capra dello stato e i cavoli degli imprenditori, senza che qualcuno debba scomodare fenomeni di cannibalismo alla Swift o note espressioni ingenerosamente rivolte all’altrettanto noto capolavoro di Ėjzenštejn, pur commissionato da Stalin, ma di valore cinematografico indiscutibile: “La Corazzata Potëmkin”. No, quella di Orlando, se adeguatamente sviluppata, può diventare una buona idea, e nemmeno stalinista.
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