Governo

“Piano Colao” e politiche abitative: poche e fragili idee

13 Giugno 2020

In queste ore sono in corso “Gli Stati Generali” indetti dal Governo per discutere del rilancio nazionale dopo l’emergenza Covid, con le pesanti ripercussioni sul tessuto socio-economico del Paese.

Nei giorni scorsi sono state rese pubbliche le schede del cosiddetto “Piano Colao”, ossia il frutto del lavoro della “task force” coordinata dal supermanager chiamato a elaborare una strategia per cogliere, da questo disastro epocale, gli spunti per far fare all’Italia un balzo in avanti sulla strada del progresso.

Non ho sinceramente capito se questo articolato documento, che ha comunque una serie di spunti  meritevoli di approfondimento, sarà tenuto a base delle discussioni che si tengono a Villa Pamphili. In ogni caso, dato che è materia di cui mi occupo abitualmente, vorrei spendere qualche riga sulla scheda 40 e 41 del documento in oggetto, intitolata “Edilizia abitativa ed Edilizia sociale”.

In premessa penso si faccia un po’ di confusione nei termini, poiché si mescola l’edilizia abitativa per fasce deboli (uso questa semplificazione per intenderci nelle vie brevi) con l’edilizia scolastica e sanitaria. Questi due ambiti, a mio avviso, necessiterebbero ciascuno di due ben strutturati, definiti e suddivisi prospetti d’azione. Perché un conto è parlare di edilizia economica e popolare (termine a mio parere da riprendere senza timidezze), a cui si affianca l’edilizia sociale (o social housing che dir si voglia) nelle sue differenti forme e un altro conto è parlare di edilizia scolastica e sanitaria. Sono due ambiti – altrettanto nodali e strategici per il futuro di una nazione che mira alla propria solida sopravvivenza – radicalmente differenti. E in entrambi è necessario un ruolo importante dello Stato, almeno come regolatore e finanziatore.

Detto questo mi soffermo sulla questione dell’edilizia abitativa e sociale. Nella scheda si fa esplicito riferimento al quanto previsto dal nuovo PGT approvato dal Comune di Milano, in riferimento all’adozione di “quote minime obbligatorie di edilizia nei grandi piani privati e pubblici di trasformazione urbana delle città metropolitane”. 

Tale riferimento è certamente motivo di soddisfazione per l’Amministrazione Comunale Milanese, per le forze che in Consiglio Comunale hanno supportato con determinazione tale passaggio normativo e – infine – anche per le realtà datoriali milanesi che hanno discusso attorno a tali scelte cercando di renderle attuabili nella realtà. Ma occorre entrare un poco nelle questioni e provare a capire se queste possano rispondere agli obiettivi che ci si propone o se, al contrario, servano approfondimenti e ragionamenti a scala più ampia.

Cosa dice nello specifico la norma di PGT richiamata? Dice, in sintesi, che in ogni piano di sviluppo con una superficie superiore a 10.000 mq edificabili (mi perdonino i tecnico-sofisti tutte le semplificazioni), scatta un obbligo di destinare il 40% di tale superficie edificabile alla categoria del cosiddetto “ERS” (Edilizia Residenziale Sociale), con il restante 60% destinato a edilizia libera (a prezzi, dunque, di mercato). Di questo 40% la metà sarà destinata alla vendita in proprietà convenzionata e la restante metà sarà destinata a edilizia convenzionata in affitto, da non confondersi con l’edilizia economica e popolare.

Il principio, già presente nel precedente PGT milanese con gradienti percentuali differenti è il seguente: essendo ormai complicato (se non impossibile) procedere all’esproprio di aree da destinare all’edilizia economica e popolare, si introduce un principio liberale ma con un discreto e sostenibile tasso di dirigismo per obbligare la proprietà privata a reindirizzare parte della “rendita” immobiliare (e, si spera, anche di quella fondiaria) alla realizzazione di edilizia accessibile senza la messa in gioco di risorse finanziare pubbliche. Si tratta, quindi, di attivare una procedura estrattiva di valore dal mercato da reintrodurre per un riequilibrio dello stesso.

Per quanto all’edilizia economica e popolare (ERP, ossia Edilizia Residenziale Pubblica) il tema resta sempre appeso: se non si mettono in gioco ingenti risorse pubbliche, difficilmente la si riesce a realizzare e a sostenere.

Funziona a Milano questa norma? È ancora troppo presto per poterlo dire. Sulla carta verrebbe da rispondere: dipende. Innanzitutto dipende se chi sviluppa un’area può contare sulla possibilità di disporre contestualmente dell’edilizia libera in vendita e di quella convenzionata in vendita. In tal caso l’obiettivo “estrattivo di valore immobiliare” della norma può essere efficace e – se il mercato è vivace – la norma funziona. Ma se chi sviluppa un’area vuole cedere solo il 40% di “ERS” a un operatore specializzato che dovrà realizzarne la metà in vendita a un prezzo convenzionato (quindi, giustamente, più basso del mercato), finanziando altresì l’altra metà da realizzare in affitto convenzionato, le cose iniziano a farsi complicate e di faticosa attuazione.

L’altra variabile, già citata, è quella del “mercato”: se il mercato immobiliare è effervescente – e quindi necessarie divengono le spinte al suo riequilibrio – è più semplice ricavare le risorse per finanziare l’affitto. Se il mercato è spento tutto si impantana.

Orbene, tutto questo vale per Milano che – notoriamente – in questi recenti anni AC (Ante Covid) era la piazza immobiliare per eccellenza. Si può immaginare, dunque, come una replicazione di tale modello a larga scala, se non adeguatamente ponderata e calibrata, rischi di produrre il vuoto in termini di risposta al bisogno vivo di case meno costose. Il mercato, infatti, languiva già da prima pressoché dappertutto (tranne poche aree metropolitane) in Italia.

Cosa si potrebbe fare? Innanzitutto quello che molti dicono da tempo: inquadrare il tema del “diritto alla casa” nel più ampio tema del “diritto alla città”. Se non si mette mano a una organica riforma urbanistica che renda omogeneo il quadro normativo in tutto il Paese si continueranno a produrre afasiche normative regionali con una legge nazionale del 1942 che – sempre a mio modesto avviso – sarebbe stupido buttare via ma sarebbe intelligente riformare.

A seguire, soprattutto nelle aree metropolitane, il pubblico dovrebbe essere messo in condizione di acquisire aree strategiche (o mantenere quelle che già ha), sviluppandone i progetti secondo principi redistributivi e mettendo poi in gioco le aree progettate (e magari infrastrutturale) tra i vari attori locali. Nè più né meno quello che fa in maniera eccellente la città di Vienna.

In questo quadro sarebbe dunque più semplice inserire anche ragionamenti come quello introdotto dalla scheda in oggetto, determinandolo come principio generale assunto nell’obiettivo normativo.

Infine servirebbe un grande piano di manutenzione straordinaria di tutta l’edilizia economica e popolare, prevedendo in questo caso importanti risorse pubbliche, dove coinvolgere certamente anche soggetti privati ma con regole chiare. Tra queste penso debbano esserci alcuni capisaldi: il patrimonio pubblico di edilizia popolare deve restare pubblico, non si può pensare di trarre profitti finanziari dagli affitti sociali (anche perché penso sia cosa impossibile) e – nel caso di risorse pubbliche – le regole le detta, per l’appunto, il pubblico. Anche se a realizzare alloggi fosse il privato.

Fantasia? No. Alcune piccole esperienze in tal senso esistono. Basterebbe studiarle, replicarle e mettersi in moto.

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