Immobiliare
La patrimoniale c’è già, e colpisce la classe media
C’è un tipo di tassazione che il governo Renzi, i partiti di sinistra e i sindacati chiamano “tassazione sulle rendite” (a volte aggiungendo “finanziarie pure” per solleticare gli istinti redistributivi di parte dell’elettorato), e che i teologi del libero mercato di varia estrazione, i partiti di destra e i critici chiamano “tassazione sul risparmio” (per strizzare l’occhio a un’altra parte dell’elettorato): quando si parla di politica, le definizioni che si usano e le parole che si scelgono hanno un peso rilevante. Tutti capiscono la differenza che passa tra chiamare un guadagno “reddito” (accezione positiva) o al contrario “profitto” (accezione negativa), così come è chiara la differenza semantica tra risparmio (positivo) e patrimonio (negativo) nel riferirsi alla proprietà. Tutti gli attori presenti sul nostro scenario politico-informativo giocano su queste distinzioni, per tirare acqua al proprio mulino. In questo caso non si può negare che il governo abbia ragione in termini formali: il reddito prodotto dal proprio denaro per il solo fatto di esistere, che sia definito un guadagno derivante dal risparmio o un profitto generato dal patrimonio, e quale che sia la sua quantità, è a tutti gli effetti una rendita. La tassazione sul risparmio propriamente detta, invece, ha natura patrimoniale. In Italia, questo tipo di tassazione si esprime da un lato con la tassazione di natura immobiliare e dall’altro con l’imposta di bollo sui conti correnti e sul deposito titoli. Da un punto di vista teorico, questa distinzione è inattaccabile: nel primo caso si riduce l’ammontare di un reddito; nel secondo si sottrae parte di una proprietà. Inoltre, mentre la tassazione delle rendite non può mai intaccare il valore delle proprietà ma solo ridurre l’ammontare di un guadagno, la tassazione patrimoniale può essere in effetti un costo per il cittadino (si pensi a una casa sfitta, a un patrimonio elevato lasciato su un conto corrente a scarsissimo rendimento, o a un investimento finanziario che si rivela improduttivo). Nella pratica, però, la differenza tra i due tipi di tassazione non è particolarmente rilevante. Nella maggioranza dei casi, infatti, un patrimoni producono almeno in media una rendita più o meno consistente: prelevare dagli uni o dalle altre non cambia il risultato in modo sostanziale, né per le tasche del contribuente né per le casse dello stato. Inoltre, e su questo sono in gran parte d’accordo con chi critica l’operato del governo, si può pragmaticamente notare come gli interventi su questi tipi di tassazione produca effetti simili in termini economici. È quindi corretto, da un punto di vista pragmatico e analitico, affrontare l’effetto combinato di questi due tipi di tassazione, senza per questo motivo considerarli la panacea di tutti i mali dell’economia italiana né un inaccettabile attacco alla libertà dei cittadini. Quanto e come le rendite e le proprietà debbano essere tassate è ovviamente oggetto di discussione, e a tal proposito si possono utilizzare argomenti di natura pratica e ideologica, relativi all’equità sociale, al ruolo dello stato, all’efficienza economica, all’utilitarismo (nella sua accezione positiva originaria, formulata da Jeremy Benthan e John Stuart Mill: the greatest happiness of the greatest number). Questa legittima discussione, però, dovrebbe partire da alcuni dati di fatto. Il più evidente di questi dati di fatto è l’aumento esponenziale della tassazione finanziaria e patrimoniale negli ultimi 3 anni.
L’imposta sulle rendite (i prodotti del risparmio) è più che raddoppiata, passando dal 12,5% del 2011 al 20% del 2012 fino al 26% attuale; nel frattempo, l’imposta sugli interessi dovuti sui conti correnti (inclusi i conti di deposito, uno strumento che ha avuto un discreto successo soprattutto tra i piccoli risparmiatori per la sua semplicità e per l’assenza di costi aggiuntivi) è rimasta sostanzialmente immutata, passando dal 27% del 2011 al 26% attuale. Rispetto a tutte queste tipologie di investimento, l’unica categoria che ha mantenuto una tassazione di favore al 12,5% sono i titoli di stato (e i buoni fruttiferi postali, ad essi assimilati). È previsto che i proventi da previdenza complementare (le pensioni integrative), finora agevolati da una tassazione all’11%, vengano d’ora in poi tassati al 20% – e quel che è peggio, in modo retroattivo: in pratica, la nuova tassazione si applicherebbe in sede di incasso anche ai proventi maturati negli anni in cui la tassazione prevista era inferiore (questo provvedimento potrebbe tuttavia essere modificato dal passaggio parlamentare del DL stabilità). L’imposta di bollo sui depositi titoli è schizzata da un valore fisso (variabile tra i 34 e i 240 euro) a un valore percentuale secondo un’aliquota fissa che è passata rapidamente dall’1‰ all’1,5‰ e infine al 2‰, di fatto raddoppiando o triplicando per la maggior parte dei titolari. Allo stesso tempo l’imposta di bollo sui conti correnti è rimasta stabile a 34,20 euro, ed è stata estesa ai libretti postali con giacenza superiore ai 5000 euro. Le imposte sulla casa sono cresciute in modo altrettanto impressionante. Nel 2011, le case di proprietà e dimora abituale (le cosiddette “prime case”) erano esenti dall’ICI, e gli altri immobili pagavano un’aliquota media del 7‰ sul loro valore catastale. Oggi, il valore di riferimento per tutti gli immobili è stato incrementato del 60%; le prime case pagano un’aliquota media del 2,9‰ (TASI) e gli altri immobili dell’11‰ (IMU e TASI). Per fornire una visualizzazione grafica di quanto questi aumenti di imposte abbiano colpito i cittadini italiani, ho svolto una piccola analisi, considerando 6 diversi esempi, con un reddito complessivo di, rispettivamente, 75.000 €, 130mila €, 230mila €, 480mila €, 750mila € e 1 milione e 100mila €: si noti che mentre ho tenuto conto del risparmio derivante dalla possibilità di abitare in una casa di proprietà, non pagando l’affitto, non ho per semplicità di calcolo tenuto conto dell’incremento di imposizione sulla previdenza complementare, che avrebbe reso il quadro ancora più impressionante. I grafici allegati all’articolo rappresentano l’incremento dell’“aliquota media” che viene pagata nei sei casi considerati sulle loro proprietà e le loro rendite, mobiliari e immobiliari. Il primo ne mostra l’aumento in termini assoluti, il secondo in termini proporzionali. Si può facilmente notare come l’imposizione sia raddoppiata per i patrimoni più rilevanti, triplicata per le fasce intermedie e addirittura quintuplicata per le proprietà più ridotte (costituite in sostanza dalla sola abitazione di proprietà di basso valore).
Ognuno, sulla base di questi dati, può trarre le conclusioni che crede. Io, che pure per formazione ideologica e convincimenti politici sono in teoria favorevole a una tassazione in generale abbastanza elevata, e penso che sarebbe necessario spostare parte del carico fiscale sulla proprietà e sulla rendita, in modo da alleggerire quello che pesa sui redditi da lavoro e sulle attività produttive, ritengo che un aumento così repentino e massiccio e così tragicamente sbilanciato nell’offrire un regime insensatamente agevolato ai titoli di stato sia stato drammatico per la funzionalità del sistema economico italiano, sotto vari aspetti. Rimangono particolarmente valide le osservazioni di Oscar Giannino e Mario Seminerio, che pur essendo su posizioni ideologiche molto diverse dalle mie colgono perfettamente quali siano i problemi peggiori di questi interventi, nel loro insieme: in primo luogo il grave l’effetto distorsivo prodotto dal trattamento di favore per gli investimenti in titoli di stato italiano, evidentemente voluto da governo per ragioni propagandistiche da un lato (“non tasseremo i bot delle vecchine”) e per cercare di tenere sotto controllo il costo del debito pubblico dall’altro. In secondo luogo l’evidente regressività degli interventi, che hanno avuto un peso maggiore sulle proprietà di valore più ridotto piuttosto che su quelle di valore più elevato, come si evince facilmente dai grafici. Non sarebbe stato meglio fare come in molti altri paesi, e inserire elementi di progressività nell’imposizione (come stanno facendo in Spagna), o ancora prevedere la possibilità di inserire i proventi da rendite in dichiarazione dei redditi e averli tassati alla propria aliquota marginale IRPEF, così favorendo chi guadagna meno (come in Francia), invece di prevedere un’aliquota fissa per qualunque importo? Inoltre, non si può ignorare la gravità della scelta di inserire un’azione a effetto retroattivo come quella sulla tassazione della previdenza complementare, che alimenta la sfiducia dei risparmiatori e l’incertezza degli investitori rendendo il prodotto “economia italiana” ancora meno appetibile. Infine, come ha giustamente fatto notare Luca Ricolfi, l’aumento dell’imposizione patrimoniale e in particolare di quella sugli immobili ha avuto l’effetto di aggravare la crisi del settore immobiliare italiano, facendo calare il valore delle case – che costituiscono gran parte del patrimonio degli italiani – e la loro commerciabilità e, di conseguenza, crollare i consumi. Non è peregrino pensare che i cittadini italiani, vedendo i loro risparmi erosi, abbiano risposto stringendo la cinghia per mettere via qualcos’altro, di atto vanificando qualunque tentativo di rilancio dei consumi interni. Se l’idea era quella di spingere le persone a spendere per evitare di essere tassate, beh, non sta funzionando per niente. Mi chiedo: ne valeva la pena, per racimolare una ventina di miliardi all’anno, dieci dei quali vengono poi gettati dalla finestra per un’operazione propagandistica e disfunzionale come il “Bonus Renzi”, i famosi 80 euro ai lavoratori dipendenti? Mi chiedo: si rendono conto, quelli che blaterano di “patrimoniale” salvifica, che nei fatti la patrimoniale c’è già e colpisce soprattutto la classe media?
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