Immobiliare

Abitare – e (con)vivere – con  il Coronavirus

6 Maggio 2020

“So di non sapere”. Questa massima socratica è quella che sento più prossima in questo lungo periodo di costretta inazione, a causa dei provvedimenti draconiani connessi all’esplosione della pandemia da Covid-19.

In queste settimane lente la cosa che più mi ha colpito è stata una sorta di eccitazione continua a esprimere – su ogni cosa – una opinione o una visione. Passando da prospettive catastrofiche a ipotesi salvifiche; dal “niente sarà più come prima” al “torneremo più forti di prima”.

Io non ho certezze. Non ho ricette. Non so cosa succederà.

Provo, nonostante ciò, a esprimere qualche opinione circa le implicazioni che la pandemia potrebbe avere sull’abitare e sulla città. Forte di questa (presunta) “docta ignorantia” cercherò di articolare qualche pensiero.

Innanzitutto parto da una considerazione: aver visto l’urbs senza la civitas è stata una delle esperienze più malinconiche che abbia fatto ultimamente. Le città senza vita umana non sono città. Sono monumenti laddove la storia ha resistito e agglomerati di materia nelle altre parti. Senza l’umano l’esperienza urbana non esiste.

Ma questa vicenda ci ha altresì messo di fronte alla nuda verità, che in alcuni momenti mi è parsa essere ignota ai più: siamo fragili e mortali. Sulla fragilità basti pensare agli effetti che una creatura vivente con un diametro 600 volte più piccolo del diametro di un capello ha creato e creerà sul sistema economico globale. Sulla cognizione – che pareva smarrita – della nostra finitezza, penso nulla si debba dire.

Allo stesso tempo ho preso coscienza di quanto sia ormai tutto drammaticamente relativo: dall’economia alla politica, passando per un dibattito scientifico che- pur dovendo scontare un confronto con l’ignoto – pare permeato di quel narcisismo superficiale che è ormai la cifra di ogni discussione

Questi fattori, uniti a decenni di politiche in campo sanitario tesi a logiche di profitto e di mercato, hanno costretto gran parte dell’umanità a una domiciliarità forzata. Ci si interroga molto, in questi giorni.

Questa costrizione sarà foriera di mutamenti strutturali? Non lo so. Ciò che è chiaro che la centralità della “domus” è stata inoppugnabile: la dimensione domiciliare, sia essa di cura, di ricovero, di lavoro o di ristoro è stata, realmente, esperienza esistenziale.

Molti hanno capito che serve loro una casa più grande? Certo! Ma riusciranno a comprarla, con le prospettive recessive che si presentano alle porte e con la rendita fondiaria e immobiliare che, soprattutto a Milano, ha corso a briglie sciolte?

Serviranno case più tecnologiche (e magari con l’ossigeno a domicilio, come ha detto un fantasioso architetto miliardario, che probabilmente non ha manco idea di quanto costi un impianto per l’ossigenazione domestica)? No: una fideistica delega alla sola dimensione tecnologica è una baggianata.

Serviranno innanzitutto case confortevoli, sobrie e – soprattutto – a costi accessibili. In cui probabilemente si dovranno riconvertire – speriamo temporaneamente – spazi collettivi in spazi ancillari alla dimensione del lavoro domestico, attrezzati per essere utilizzati secondo le prescrizioni sanitarie che sono state imposte.

Vincerà la vita in città o il ritorno ai borghi? Anche in questo caso, probabilmente, l’atteggiamento manicheo da curva sud non aiuta. Quel che appare chiaro è però il dato connesso alla impressionante accelerata data allo “smart working”; se “tutto il mondo è Paese”, potremmo dire che “tutta l’Italia è Provincia”, dando a quest’ultima un’accezione positiva. Dove la relazione tra dimensione minerale e dimensione naturale è ancora equilibrata e dove i tempi seguono ancora ritmi sincronizzati col bìos. Probabilmente in questi due mesi molti impiegati, funzionari e dirigenti di tutto quel largo mondo del terziario e dei servizi si sono resi conto che si può lavorare con la medesima produttività da casa. E magari in città di quell’Italia di mezzo in cui la vita costa meno e si gusta meglio. Se tale tendenza si dovesse sedimentare, cosa ne sarà di tutti gli uffici nelle città, spesso concentrati in grattacieli scintillanti con canoni di locazione stratosferici? Chi può dirlo?

In sintesi: oggi fare previsioni con certezza è un azzardo. Troppe le incognite, tante le variabili.

Ciò che immagino sia però molto probabile è una fase dura. In cui molte persone, per ragioni oggettive (perchè perderanno il lavoro) o per ragioni soggettive (per una sorta di rattrappimento sociale) tenderanno a stringere la cinghia.

Ecco dunque una necessità imperativa: fare spazio a un modello di sviluppo che non sia solo più sostenibile ma che sia – soprattutto – più equo. La questione della redistribuzione della ricchezza – o della condivisione della scarsità, a seconda del punto di vista – è una questione che non può più essere elusa. Anche, e soprattutto, nello sviluppo urbano.

Perché città più giuste saranno anche più umane.

Insomma, più che di competizione avremo bisogno – in ogni campo – di più cooperazione

@Alemagion

www.facebook.com/alessandro.maggioni.792

 

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